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Con l'incisione di Roberto Stelluti i conti prima si fanno e meglio è: poi, comunque sia l'esito, non si resta indifferenti. Lo dico per esperienza personale, proprio per non aver fatto subito i conti e misurando il tempo trascorso da quando ho avuto tra le mani un suo catalogo con alcune riproduzioni e molto tempo dopo, sino a qualche settimana addietro, quando ho conosciuto i suoi fogli dal vero. Chi ama la calcografia sa che il divario fra la riproduzione anche più accurata e la stampa viva è enorme e direi che questo vale in maniera particolare per Stelluti. C'è il rischio che guardando le sue calcografie per speculum et in enigmatae si possa generare qualche equivoco.


Con me è stato cosi. Prima mi ha interessato e poi, con la conoscenza diretta, mi ha meravigliato e, quando, infine, ho iniziato la lettura tranquilla e sistematica mi ha entusiasmato (con l'ovvia perdita della tranquillità di lettura). Mi sono riferito alla mia esperienza personale perché ho la presunzione di credere che si tratti di una reazione comune. Si può pensare che conti molto il repechage di quelle qualità rare di carattere artigianale che oggi si giudicano, con senso dispregiativo, professorali o accademiche. Non c'è errore più grosso di questo perché Stelluti è un autodidatta; semmai è "un figlio d'arte" che da ragazzo anziché giocare al pallone o idiotizzarsi alla televisione, trafficava con lastre di rame e lucido da scarpe (usato come vernicetta), e con gli acidi e il fornelletto, le garze, le bacinelle e quanto altro ("un incisore nato" da definizione è di Sciascia) accumula di negromantico e stregonesco per la propria arte. Con questo non voglio sottolineare l'unicità della sua preparazione che, per le amicizie e gli incontri, da Piacesi a Polzonetti, conducono a quella capitale della calcografia del Novecento italiano che è Urbino, non lontana da Fabriano con cui è naturalmente gemellata per via della carta.


Coglie lo stupore per la incredibile finezza e variabilità dei segni che, a volte, sfiorano la lastra lasciando appena l'idea del nero, per le sfumature che sembrano emergere più da un pensiero che da un gesto della mano. Da qui l'entusiasmo per come Stelluti riesce ad indicare ogni paglia e pagliuzza del suo pagliaio, pescando con sicurezza l'ago sino a compiere miracoli di luce e di trasparenze.


Mi scuso se parlo della mia privata reazione alle incisioni di Stelluti, anziché entrare subito in argomento. Ma penso che il segreto dell'acquaforte, molto più che ogni altra invenzione d'arte, discenda da un indefinibile rapporto di lettura, dalla misteriosa quantità di suggestione, di segnali e di risonanze, di suggerimenti e di evocazioni capace di trasmetterci.


Niente più di un'acquaforte assomiglia, infatti, alla poesia, che non è certo assemblaggio di parole. L’acquaforte, come la poesia, è un susseguirsi ed un esplicarsi di echi e modulazioni, musica e immagini, luce e specchi di vero. Per una di quelle coincidenze fortuite (ma che fortuite potrebbero anche non esserlo) nei giorni che leggevo ("con la matita") le acqueforti di Stelluti ho avuto una conversazione con Bruscaglia sulla equazione lastra = pagina (che nessun calcografo dovrebbe mai dimenticare) e, dallo stesso valentissimo incisore urbinate, l'invio di un soggetto di Paul Valéry sulla calcografia che veniva a corroborare (e scusate se è poco) le nostre convinzioni: "Scopro nell'incisione, come nella scrittura letteraria, una stretta intimità tra l'opera che si forma e l'artista che vi si applica. La lastra (oppure la pietra) è molto simile alla pagina su cui si lavora: l'una e l'altra ci fanno tremare; l'una e l'altra sono davanti a noi alla distanza della visione chiara; con lo stesso sguardo abbracciamo l'insieme e il particolare; la mente, l'occhio e la mano concentrano la loro attenzione su quella piccola superficie dove giochiamo il nostro destino…"


Non è questo il colmo dell'intimità creatrice che conoscono egualmente l'incisore e lo scrittore, ciascuno legato alla sua lastra dove fa comparire tutto quello che sa e tutto quello che vale? Queste parole del grande epigono della poesia simbolista europea sono straordinariamente pertinenti per la conoscenza di Stelluti a motivo della pienezza di mente di occhio e di mano anche se le sue acqueforti - per quel professionismo artigianale di cui gli si deve dar merito - tendono ad un'ampiezza che va oltre la misura della pagina comune per essere quella dell'in folio; lastre che fanno correre gli occhi come di fronte ad un panorama avvolgente aperto a nuove scoperte e particolarità. L'avvertimento di Valéry offre, insomma, un'indicazione di base; l'interrogativo però è, sul modo di leggere queste acqueforti; e riprendendo ancora l'analogia con "la scrittura letteraria" dice se dobbiamo accoglierle come una prosa o un racconto, un poema, una poesia lirica... Ci si accorge però a questo punto che il suggerimento letterario non basta.


Stelluti chiede un'attenzione particolare che talvolta può provocare persino una reazione irritata, tanto è ricca e, nel contempo, segreta la sua pagina, tanto è sottile la sua immagine, tanto è "ambigua" la sua rappresentazione. Può sembrare il trionfo di un realismo puntiglioso e ci si accorge, invece, che sconfina fuori di ogni topografia nella zona di un "realismo magico", nel surrealismo o addirittura nella rarefazione del metafisico. Lo ha detto bene Carnevali, da raro conoscitore dell'incisione, quando ha ricordato che per raccogliere tutto dalle incisioni di Stelluti ha usato la lente (ed io aggiungerei che forse non è male tenere a portata di mano il contafili, quello che spaventa moltissimo il pur scanzonato acquafortista Arnoldo Carrocchi).


Nell'ampia lastra di Stelluti c'è un perfezionismo costruttivo, una abilità architettonica che lascia sconcertati (come se avesse inciso la lastra con riga e squadra) però docilmente allineate alla evocazione narrativa-poetica del risultato. Penso, come esempi di questa astrazione costruttiva in regola con le prospettive e persino con il trompe-l'oeil, a «Omaggio a Piranesi» e a «Opificio abbandonato». Di fronte a fogli come questi, dove si combinano gli elementi più divaricati del geometrismo e dei passaggi chiaroscurali o del geometrismo con la rappresentazione lussureggiante delle erbe "selvatiche", si capisce che Stelluti quando ha cominciato a guardare intorno a sè lo ha fatto in funzione dell'acquaforte quasi che la "misura di tutte le cose" sia stata sempre una lastra già intravista prima ancora di essere toccata dai ferri del mestiere. Se è vero - come scriveva Mallarmè - che tutto accade per finire in un libro, si può dire che per Stelluti il mondo esiste per poter essere ripreso in un'acquaforte.


Ho accennato alla descrizione dettagliata in ogni spicchio del vero, paesaggio o natura morta che sia, sino a riprendere le sfumature delle venature di una tavola di legno. È forse paradossale ma il giuoco dei dettagli e la descrizione dei particolari gli serve per arrivare oltre la superficie del reale. Se questa mia non fosse un'immagine rozza, rispetto alla sua delicatezza descrittiva, direi che egli penetra la materia per darci i fili della tessitura che sta sotto la pelle delle cose, ed oltre la crosta della materia. Per questo, anche dagli elementi oggettivi del paesaggio familiare o accertato della periferia fabrianese (così struggente nei suoi ruderi o nei monumenti che sembrano destinati a divenire ruderi), l'incisore trae un segreto, un'atmosfera irreale fatta di scansioni liriche all'opposto di quella nozione di realismo che, a prima vista, può sembrare dominante.


Anche l'eccezionale virtuosismo espresso senza soluzioni di continuità è assortito dalla grazia dei segni filati o punteggiati, dal tratteggiato o dalla polvere di punti. Così il foglio arricchisce sino all'inverosimile di passaggi luminosi e di "colore", tanto la ricchezza del bianco e nero è intensa e variata e tanto mobile, composita e variabile è la stessa acidatura. Basta, infatti, soltanto qualche centimetro quadrato per passare attraverso tutta una gamma di bianchi e di neri. Le due grandi lastre "Periferia" e "Omaggio ad Altdorfer" sono per questo le più indicative e forse anche il vertice della sua creatività, come Stelluti, ha tratto meditando (come egli stesso confessa) le grandi opere calcografiche del passato sino a quelle dell'Ottocento inglese (mi pare che Bonnington e Whistler - che si citano sempre - debbano essere ricordati anche in questo caso) ma poi Fragonard e, più indietro nel tempo, Seghers al cui pensiero è d’obbligo ricorrere di fronte a "L'eremo di Monte Cucco" e a "Il Convento di Castel d'Emilio". Ma c'è poi la tradizione più recente (L’italiano Bozzetti ed una gran quantità di calcografi della Mitteleuropa), toccato da un gusto preraffaellita, con modulazioni di raffinato decorativismo ed una sensività acuta per lo sfolgorare della natura e la sua capacità di sopraffare e quanto resta del già corrotto dalla violenza contro il costruire degli uomini. Le rovine che piacevano tanto ai nordici, con quel loro vagare en tourist intellettualistico fra i fori e la campagna romana, sono suggerimenti che Stelluti fa propri in un naturale e confessato decadentismo. Se dovessi (ancora una volta) ricorrere ad un riferimento letterario, direi che si fa prendere nell'astrazione e nella corposità insieme, così come lo sono le pagine di Goffredo Parise e di Truman Capote; per intenderci, le loro prime pagine de "Il ragazzo morto e le comete" e di "Altre voci altre stanze". Ricorre con esattezza quello che Carnevali ha chiamato "il senso della morte", sorta di sguardo con qualche accento tenebroso sul disfacimento, delle cose ("Farfalla notturna", "A Zurbaran", "La quiete notturna"). Ma la qualità della sua poesia travalica i termini specifici e le modulazioni dello stile; per questo - richiamando quel che si diceva all'inizio - in lui non c'è mai il rischio della ripetizione accademica della generica illustratività.


Il sudario di erbe lussureggianti e fitte (...), si fa visionarietà con accenni e stupori onirici che ritrovo ancora in "Omaggio ad Altdorfer" e, con misura del tutto particolare, in "Periferia" ove il primo piano degli alberi potati e contorti e la ricchezza della vegetazione sulle sponde del ruscello (una illustrazione adatta per l'Inferno dantesco) si allinea, in contrasto, con l'irreale della costruzione in cemento armato. La qualità inventiva di Stelluti sta, in definitiva, proprio in questa trattazione dei contenuti ridotti ad occasioni di poesia tramite quella pazienza febbrile del segno che bisogna augurargli di mantenere, sperando che abbia la forza di conservare senza lasciarsi sedurre da altre esperienze.


Di solito, quando si presenta un artista molto giovane come lo è Stelluti, gli si dice di camminare, di andare avanti. Forse avremmo fatto cosi anche per lui, ma io non me la sento proprio, perché credo che l'area poetica egli l'abbia centrata quando ha inciso tavole come quelle che presenta ora. Quando si sanno trarre certe gurazioni cosi ricche di emozioni, quando anche dal "segno della morte" sa dedurre le vibrazioni della vita (poiché la poesia è un'altra misura della vita) si deve solo raccomandare che l'incantato equilibrio non sia distratto da convenzioni esterne. C'è, insomma, da augurargli (e da augurarsi) che il suo apologo sulla bellezza, raccontato con le luci e le ombre di quell'arte faustiana che è l'acquaforte, non abbia a variare, né a misurarsi con il tempo.


Il ragazzo incantato che sta dentro l'animo di Stelluti, deve poter continuare a suggerirgli l'amore per un filo d'erba e per una foglia; per il silenzio e la grandezza di un fiore ignoto: cose che sono l'emblema di una favola che gli amatori della sua incisione trovano, insieme a lui, nella selva dei segni: nelle sue parole.


Valerio Volpini
Roberto Stelluti. Roberto Stelluti. Incisioni 1969-1988

catalogo della mostra, Comune di Fabriano, 

Fabriano, 1988

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