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Tutto ebbe inizio il giorno in cui ebbi modo di osservare un volume di storia dell'arte, dove erano riprodotte due delle quattro versioni delle "Tre Croci" di Rembrandt. Rimasi scosso per l'invenzione di luce che inonda dall'alto la scena della Crocifissione come in una rappresentazione dove i personaggi hanno funzione di quinte. Mi incuriosì anche l'aspetto tecnico; in particolare, mi chiesi come Rembrandt avesse potuto ottenere più stati con la stessa matrice, cambiando completamente la posizione delle figure con soluzioni grafiche diverse tra stato e stato. Avevo diciassette anni, questo incontro generò in me l'amore per l'incisione.


Sono nato e vissuto a Fabriano, città della carta. Ho sempre avuto familiarità con la carta e l'interesse per questa materia, con il passare del tempo, si è arricchito di nuove sollecitazioni, soprattutto in rapporto alla stampa. Ricordo l'emozione provata durante la visita a un vecchio stabilimento, lo stupore nel vedere per la prima volta, con occhi di ragazzo, uscire dai tini l'immagine della filigrana.


Credo di avere inciso fino ad oggi circa 140 lastre; solo una parte di esse mi lascia soddisfatto. Comunque, in ogni mia opera vive il ricordo di un periodo della mia vita, dei luoghi, delle persone conosciute, delle passioni, delle banalità del quotidiano, dei miei ateliers, di tutto quanto può la vita di un uomo.


Ci sono giornate, tra maggio e giugno, incredibili: la natura raggiunge il suo più alto splendore, palpita di nuova vita, la vegetazione si fa rigogliosa, si espande, fiorisce.

È questa la mia stagione.


Le giornate che passano sono scandite dal profumo delle ginestre fiorite, del caprifoglio, dei grappoli di spinagaggia e di sambuco simili a galassie; nelle prime giornate di giugno ecco aprirsi, profumatissimi, i fiorellini del tiglio.


Al mattino, tra i ciuffi d'erba spontanea, si apre quella pianta meravigliosa che è il soffione o "barba di becco". L'ho disegnata più volte, attratto dalla sua bellezza, dalla forma perfetta data dagli acheni lanosi. Sembra nata per essere disegnata da un incisore. All'interno della sua perfetta infiorescenza è qualcosa di magico, una sorta di labirinto che non mi stancherò mai di ammirare. È commovente, è un miracolo che si ripete ogni anno. Le mie incisioni nascono così, non è necessario che vada lontano, tutto avviene intorno a me, mi basta osservare le cose e cercare dentro me stesso. Spesso immagino subito in maniera grafica ciò che ho davanti: è il momento più puro, di serena contemplazione e di raffronto tra quello che guardo e quello che ho veduto con tutto quanto possiedo di conoscenza ed esperienza.


Il pensiero corre ai grandi Maestri del passato: Dürer, Altdorfer, Seghers, Rembrandt, Piranesi, Friedrich e i contemporanei Luigi Bartolini, Renato Guttuso, Fabrizio Clerici, Piero Guccione e il bretone Jean-Pierre Velly; sono loro che mi hanno preso per mano nei momenti di sconforto. Spesso mi domando perché abbia scelto una tecnica così ardua e rigorosa. Che senso ha fare incisione in piena era telematica, soprattutto come ho fatto a non cadere in tentazioni fuorvianti, a mantenere la calma necessaria? Penso che mi abbiano soccorso le possibilità del linguaggio incisorio, l'azione del mio intimo di questa vita alchemica, come anche la pratica quotidiana del segno affilato e penetrante.


Tra le discipline incisorie, l'acquaforte è quella che amo di più. Questa tecnica del bianco e nero mi permette di operare con calma e precisione. La lastra nera che ho davanti, preparata con una vernicetta composta di cera d'api e resine, opportunamente affumicata, viene graffiata da punte di differenti spessori. La punta scivola sulla pellicola antiacida e la scalfisce, lasciando un ordito di segni diritti, curvi, tortuosi, tratteggiati; più di frequente una serie infinita di puntini. Dopo settimane di lavoro, quando tutto è delineato, la lastra viene immersa in una soluzione acida che corrode solo le parti di metallo in precedenza liberate dalla vernicetta. Tali segni, più o meno incisi, determineranno, al momento della stampa, differenti variazioni chiaroscurali. 


La mia giornata si gioca tutta su un piccolo spazio da disegnare, pochi centimetri quadrati che giorno dopo giorno fanno prendere corpo e forma, luce ed ombra a tutte le cose. Come il bulino, l'acquaforte possiede peculiarità di analisi, di precisione estrema; come nessun'altra tecnica favorisce la possibilità di delineare ogni particolare. Io tendo all'esaltazione del particolare, esasperando la tessitura chiaroscurale. Come poche altre discipline, l'acquaforte richiede l'assoluto dominio di sè stessi e dei mezzi. Mentre si disegna, occorre avere chiaro il risultato prefisso: sbagliare non è ammesso, pena la perdita di settimane di lavoro. Una grande pazienza è necessaria, insieme con la fantasia e la tecnica, per ottenere un indispensabile equilibrio.

Ho sempre pensato che l'incisione non possa essere considerata la Cenerentola delle arti, un surrogato della pittura o della scultura. Si tratta di un mezzo espressivo con propria connotazione, autonomia, valore, arricchito da implicazioni grafiche e poetiche.


La sua peculiarità è data dal segno, ottenuto attraverso la mediazione della lastra corrosa dall'acido e trasposta poi a stampa. Il segno diventa altra cosa dal segno lasciato dalla matita sulla carta, acquista un diverso significato, si fa più penetrante, con infinite modulazioni e spessori di tratto. Luigi Bartolini preferiva spesso disegnare (per avere un solo esemplare) direttamente sulla lastra anziché sulla carta, perché l'incisione all'acquaforte gli permetteva di ottenere diversi e maggiori risultati grafici rispetto ad un semplice disegno.
Per quanto mi riguarda, non ho mai fatto uso del colore nelle mie incisioni.


Pur avendo compiuto qualche tentativo, ritengo che il colore indebolirebbe, invece di rafforzare. Ciò non significa che sia contrario al colore: Seghers insegna che il suo uso può giovare alla qualità dell'opera.

Molte volte mi avvalgo di soggetti che meglio di altri riescono ad evocare il "male oscuro", le vanità della vita: l'inquietudine che grava dentro i miei opifici abbandonati, i girasoli disseccati e contorti sotto il sole, il ramarro morto, arrotolato sopra il piano del tavolo, sono simboli che, descritti con una miriade di segni, rimandano a una seconda realtà.


A questo proposito devo parlare del mio amore per l'olandese Hercules Seghers (1590-1638). Le sue singolari incisioni mi hanno offerto e continuano ad offrire sollecitazioni; valga come esempio l'acquaforte "Paesaggio roccioso con fiume e sentiero", dove il segno è allucinato, le montagne rocciose sembrano materia cerebrale, con le circonvoluzioni pulsanti di vita, come un cranio umano appena aperto. La sua frenesia nel delineare il particolare fa vibrare di umori infiniti la materia di ogni elemento; la sua capacità di assegnare a ciascuna parte un valore definito fa di questo artista un visionario sublime.


Forse si può cogliere una vaga affinità di intenti tra le opere di Seghers ed alcune mie incisioni, fosse pure solamente per l'ossessione descrittiva. A Seghers mi riferivo nel 1974, quando incidevo "L' Eremo sul Monte Cucco", che considero un omaggio alla sua arte. È singolare come quel luogo saturo di mistero sia, dal punto di vista geologico, identico ad alcuni suoi paesaggi. Si trova a Pascelupo, tra gli anfratti dell'Appennino Umbro-Marchigiano, dove le montagne si impennano formando gole orride, inaccessibili; ancora non contaminate da presenza umana.


Questo è il mio paesaggio ideale. Fuori dal mondo, lontano dagli umani, qui si stabilisce un rapporto tra me e l'infinità della natura che, come nel "Paesaggio roccioso con fiume e sentiero", sembra esprimersi in un arcano, perpetuo delirio.


Fabriano, maggio 1997

Roberto Stelluti
Pascelupo e dintorni

in Fondazione Salimbeni (a cura di), Roberto Stelluti. La cometa. Opera grafica 1971-97, Silvana Editoriale, 

Cinisello Balsamo (MI), 1997,
pp. 13-17

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