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“Si avrebbe voglia di immergersi in quel mare d’erba che l’artista ci propone, continuamente pervasa da un ancestrale movimento ondoso. L’attrazione centripeta si sviluppa di colpo e ti conduce nell’occhio del ciclone, nel flusso delle foglie, delle liane e dei fiori, che parlano. Poi una spinta centrifuga ti lancia lontano, nel tempo, in quella dimensione antica, perenne. Verrebbe voglia di fermarsi un po’, seduti vicino ad una delle sue Ville, ad un tronco, e non far nulla. Aspettare ancora un attimo, per dare tempo alla vegetazione di svilupparsi attorno a noi: per diventare, noi stessi, Villa che si erge, sentinella assente ma memore, pulsante ma statica, presenza umana camuffata da Universo. Ma non è di vegetazione che si ciba il bulino dell’uomo, non è vento che muove l’erba, e non è erba ciò che si muove. È l’animo stesso del poeta che vibra, che ondeggia, se andare o restare. Che muove le sue fila, avanti e indietro, a destra e a sinistra. È l’animo che si è dato le forme già flessibili della natura per rappresentarsi, per godere di sé stesso. E non ne esci più.”


Questo scrivevo, e non pubblicavo, molti anni fa, dopo un incontro con Roberto Stelluti, nel suo studio per un giorno intero, tra i ramarri e i soffioni, i girasoli e i teschi parlanti, le statue di cartapesta che fissano una folla che non c’è più. E il gregoriano che ti arriva dal fondo dell’antro, come una eco messaggera risuonare del mondo inatteso.


Ora che mi accingevo, davanti alla porta di Via Gentile da Fabriano, a tirare il “batocco” della campanella che risuona, lontano, nella ex sacrestia dell’antico convento di Sant’Onofrio, ove Stelluti disegna e incide le sue lastre, ripensavo a quel mio scritto e mi immaginavo di ritrovare i locali caldi delle stufe di cui l’artista ha bisogno per mantenere tiepidi mani e piedi e fluidificare così la punta della grafite o quella d’argento, che stanno prendendo sempre più piede fra le opere della sua attuale produzione.


Un incisore è sempre chiuso nel suo studio a riprodurre o inventare oggetti, paesaggi; disegnarli, inciderli sulla lastra, morderli con l’acido, aspettare i tempi, rimordere, correggere… Tutta questa “metrica” è come se coniugasse una vita dalla mattina alla sera, costante, monotona, snellita da qualche errore inopportuno o da una morsura non perfetta e forse da un’imprecazione distratta. Ci cambia la vita questo “metronomo” o siamo noi, il metronomo? Questo mi andavo chiedendo nell’attesa. “Tu rappresenti cose naturali - andavo ancora immaginando nella mia possibile domanda. Ma, come tutti gli artisti veri le trasformi, le trasfiguri tirandogli fuori lo spirito che è in esse, le nobiliti, porti la luce della loro energia pulsante ad illuminare la giornata di chi ha il privilegio di averle appese al muro, rendi il mistero nascosto nel bosco a porsi come oggetto di riflessione, di meditazione. Sei cosciente di questo indurre nell’uomo?”.


Ma i primi scambi di battute amicali e cordiali con Roberto, il dolce tepore dell’ambiente, la vista delle tante piante in controluce ai finestroni, e il teschio di vacca in bella vista, nonché la Madonna di Antonello siciliano irrorata dalla luce dei fiori secchi in suo onore, lo sguardo e la mente altrove dell’uomo che mi sta di fronte, il suo fare calmo, solito, inframezzato da lunghe pause, mi fanno intendere che non ha voglia di rispondere alle domande precise che mi sono preparato per l’occasione, preferisce dialogare. “Tre mesi, circa, impiego per un’incisione, un’acquaforte. Non è che sto tutti i giorni su quel lavoro. Quando il tempo atmosferico non ti aiuta, quando hai la testa occupata da beghe amministrative o personali, quando non ti senti bene e ti accorgi che rischi di rovinare il già fatto, non ti ci metti proprio o abbandoni, subito appena iniziato. Quando devi realizzare un particolare nello spazio di pochissimi centimetri e ti serve una concentrazione massima, devi avere molta calma, devi addirittura auto esaltarti se vuoi andare avanti; se credi che quel mattino non potrai avere nulla di tutto ciò, lasci perdere. Questo lavoro è fatto così. Poi ora, col tempo, sto diventando sempre meno sintetico, sono più lenticolare, vado alla ricerca di sempre più interessanti tessiture della “pelle” e della “sottopelle” delle cose, del mondo. Sono un po’ più certosino, se vogliamo, stigmatizzo di più, e mi occorrono tempi un po’ più dilatati, più calma. Tutto diverso dai fini anni settanta, quando facevo un tipo di incisione che mi portava via non più di tre settimane. Si cambia”.


Sì, si cambia. Roberto Stelluti ha sempre disegnato; come me, come molti creativi il disegno ce l’ha nel sangue, anche se ad un certo punto della tua storia hai bisogno di stimoli per cominciare a pensare che per te può diventare importante. “E per me – continua l’artista – è stata mia madre la prima musa, quella che mi ha spinto a continuare. Lei aveva attitudine, e aveva fatto dei Corsi di disegno all’Istituto S.Antonio di Fabriano retto dalle Suore. Mi spinse a crederci e continuare. Cominciai a fare incisioni su linoleum” – e mi fa vedere i piccoli bassorilievi delle cicatrici di ragazzo ancora incise sulle mani.


Ma, naturalmente, serve un Maestro nel proprio percorso artistico, e Roberto Stelluti aveva scelto Renato Guttuso. Pur non avendolo mai visto in modo diretto, sapeva già tutto di lui; così, quando ebbe il coraggio di scrivergli e di andarlo a trovare, era come se l’avesse conosciuto da sempre. E con Guttuso, pur avendolo frequentato fisicamente poche volte, è rimasto legato, anche alla sua memoria. Ha fatto più volte mostre a Bagheria, nel milieu del Maestro. Ed oggi, Fabio Carapezza Guttuso, figlio adottivo del Maestro e presidente degli “Archivi Guttuso”, lo ha richiamato proprio ad esporre una sua opera nella sezione “Dialoghi”, insieme a quelle di altri artisti che per un motivo o per l’altro sono stati legati a Guttuso, hanno avuto almeno un dialogo d’intenti con la sua arte, oltre a rapporti d’amicizia e professionali: vedi Ceroli, Schifano, Wharol e tanti altri; sezione che arricchirà l’evento (si tiene a Bagheria, nella Villa Cattolica dove è il Museo Guttuso) che vuole ricordare la scomparsa del Maestro avvenuta venti anni fa, con una selezione dei migliori e più noti lavori dal 1967 al 1987. “È un onore grandissimo per me, stare lì con i miei girasoli, insieme ad artisti di grande nome, grandi livelli professionali, è bello. Questi sono i regali della vita. Chi pensava che, dal mio incontro iniziale da ragazzino con Guttuso, sarei rimasto legato ancora a lui? Tutto è legato nel mondo, le cose, gli uomini, i fatti, tutto. Ecco perché rappresento il mondo vegetale e il mondo animale insieme. C’è un filo che lega e ci segna fin dall’infanzia, ma non riusciamo mai a scovarlo con certezza. Il Mistero”. 


Stelluti si alza, mette a posto cose, io provo a scattare qualche foto, ma è sera, c’è poca luce anche per le megadigitali di oggi, tornerò domani. Riprende la matita e prova a portare avanti il disegno a cui era intento poco prima ch’io arrivassi; mi ricorda che sarà a Biella a gennaio, alla Galleria Sant’Angelo, e qui nelle Marche, ad Urbania, in una collettiva del Palazzo Ducale alla quale parteciperà con un suo lavoro proprio dedicato alla città del Montefeltro. Io faccio ruotare lo sguardo in un ambiente che conosco ma che non frequento da qualche anno, è rimasto uguale, come il mio ritmo di scrittura. Natura anidra, evaporata, statica, ma piena di mistero. Teschi, piante, girasoli, ramarri, serpi, vasi di vetro e di latta, fogli e fogli, libri, stampe, vinile, vecchie statue di soggetti religiosi, e musica – quando lavora – classica, gregoriano, altro. Lo studio è ubicato in uno dei luoghi rimasti ancora immutati nel tempo. Stelluti ha vissuto l’infanzia poco più in là, in uno dei Caffè storici di Fabriano, ha avuto anche un’infanzia molto interessante, fra tutta la gente strana, simpatica, importante, o malmessa, povera, di tutti i tipi, che frequentava il suo bar, all’odore dei cappuccini e dei caffè, dei croissant appena sfornati. Così, prendiamo a violentare la mente alla ricerca di quei personaggi.


“Alcuni aspetti tecnici del lavoro dell’incisore sono molto interessanti. Ma il disegno è il momento più bello, più emozionante, ti dilata il tempo. Ultimamente ho anche “l’occasione” di incidere poco, faccio poche morsure l’anno: disegno a matita e a punta d’argento, mi chiedono sempre più pezzi unici. Beh, guardo all’Esistenza, certo (ogni tanto riesco a farlo rispondere a qualche mia domanda, ndr). Ho già detto che tutto è collegato nell’Universo. Questo mi fa pensare che dietro c’è una logica, una struttura, una tessitura intelligente, creata ad hoc… Sì, sono un po’ decadente nelle mie rappresentazioni, crepuscolare se vogliamo; d’altronde i miei maestri ideali, quelli a cui mi sono ispirato sono tanti… Seghers, Altdorfer, Durer, Friedrich, Piranesi, Bartolini”. 

Poi mi consegna un cd, dove ci sono le riproduzioni di suoi lavori grafici. “ Ma io il pc non so neanche accenderlo – ci tiene a precisare-, ci pensa mia figlia”. Questa è una delle risposte che volevo, nel senso che volevo verificare. E alla fine viene fuori il vero Stelluti. L’uomo che si avventura in mezzo a boschi, in mezzo ad architetture umane infestate dalle erbe e dalla traccia pesante del tempo, che si affretta a raccogliere un ramarro morto in mezzo alla strada e lo conserva nel ghiaccio per evitare che il tempo continui a compiere la sua opera impietosa, che sta delle ore chino col suo bulino e la matita, che accumula cose e cose nel suo atelier sacro; quest’uomo mal sopporta la tecnologia più immediata, il cellulare e il pc, che non usa. “Nei luoghi dove ritrovo le tessiture di Seghers (l’olandese Hercules Seghers, 1590- post 1635), a Pascelupo, fra gli orridi ancora incontaminati dell’Appennino Umbro-Marchigiano; lì, fuori dal mondo, lontano da tutti, in quei momenti riesco a stabilire quel rapporto profondo tra me e la Natura, tra me e l’Universo, che cerco poi di riportare nei miei disegni…”.


Poi si va a cena, finalmente, a continuare il parlare d’arte e di sogni, ma anche dell’oggi, dell’ieri, del sempre. “Bella serata abbiamo passato. Mi mancava una chiacchierata con qualcuno, ho bisogno di parlare ogni tanto. Faremo una bella cena, che ne dici? Qui nel mio studio, un bel cenacolo di amici con le castagne arrostite sulla stufa economica”.


Stare in quell’angolo di Fabriano, nello studio di Stelluti, con lui per mezza giornata, ci si sente isolati da tutto e da tutti, è come tornare indietro nel tempo. Quando ci si poteva riposare più spesso, fermare e parlare, pensare insieme, in una serie di rimandi storici e aneddotici, al calore della stufa a legna e di quella a gas. 

Basta tirare la cordicella, lenta (hai sempre paura di spezzarla, specialmente d’inverno), che anima il suo portone chiuso con la scritta in ottone STELLUTI. Non so se vi aprirà, potrebbe essere immerso nel momento più bello della sua giornata. Converrà telefonare e prendere un appuntamento. E anche lì, aspettate un attimo al telefono, per favore.


Renato Ciavola
L’erba di Stelluti

«Scirocco», n°20,
ottobre-dicembre 2007,
pp. 16-25

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