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Conosco Stelluti da quando frequentavamo la Galleria anconetana "L'incontro", lui, artista giovane e creativo, io, studioso, in cerca di vedere e allargare il mio mondo. A me è sempre piaciuta l'incisione, quella vera, su legno, su rame, su zinco. Questo interesse era nato sin dall'infanzia, quando gli ambienti della scuola elementare che frequentavo vennero usati per una mostra d'arte, per me la prima in assoluto, qualcosa davvero di nuovo ed impensato. Vi trionfava Adolfo De Carolis e le sue xilografie, insuperabili per l'impegno tecnico e la forza creativa, che solo oggi m'avvedo quanto fossero legate al gusto del tempo, tra Pascoli e D'Annunzio.


L'incisione nasce da un forte impegno tecnico, richiede perseveranza e bravura: sicché l'impeto inventivo si smorza, a poco a poco, sotto l'esigenza di coniugare forma e contenuto. Art e Craft, dicono gli inglesi, arte e artigianato, arte e forma espressiva, raggiunta questa con l'esperienza. Non è facile, anzi è molto difficile. E Stelluti c'è riuscito, tanto che oggi, così io la penso, egli è il più completo incisore che viva tra noi, e le sue stampe le guardo e riguardo, certo di scoprire ogni volta qualcosa di nuovo in quella sua intricata ed intrigante forma espressiva.


Fabrianese. Mi pare che a Fabriano vi sia una via che porta quel nome, e quel vive, dunque, nel tempo. Guardiamolo in faccia. E possibile, perché è franco, il suo occhio non va inseguito, ma incontrato. Nel 1971, a venti anni, s'è messo davanti allo specchio e da quell'incontro con sè stesso, è nato un autoritratto, pieno di bravura tecnica, forse un po' troppo ostentata. Mi piace di più in una foto che lo mostra in montagna, durante una escursione, ripreso al di qua di un laghetto, oltre il quale precipita, tra erbe rocciose, una cascata d'acqua, che rallentando tra i sassi, s'imbianca, con quel eterno gorgoglio, che si sente nell'aria. Forse in quell'acqua v'è, in parte almeno, l'anima di Stelluti. In quella foto Stelluti guarda e sembra sorridere, soddisfatto. 


E il suo volto, un po' sornione, ha messo in movimento la mia memoria, perché c'è un qualcosa di fabrianese, in lui, che sollecita altri volti, altri sorrisi: come quello di Bruno Molajoli, ch'io chiamo l'eroe di Capodimonte, essendo riuscito, superando le infide burocrazie italiche e tante presunzioni, a fare di quella Reggia borbonica il più bel Museo d'Italia, in mezzo al verde, in una visione panoramica insuperabile. 


(...) Stelluti ricorda anche Lando Laureati, che, come Molajoli, non c'è più. Alto, biondo, con quel suo fare sicuro, a Palermo nella Scuola Ufficiali di Palazzo Scrofani metteva in soggezione persino i sottufficiali, pieni sempre di sussiego e compresi dei compiti da svolgere. Con lui conobbi appunto Palermo e la Conca d'oro: e con lui, passando per Bagheria, patria di Guttuso, con faticose marce notturne raggiungemmo Rocca Busambra e, infine, Corleone, che m'apparve un paese tranquillo, perché pecore e galline si godevano tranquillamente le vie cittadine, dove oggi transitano anche esseri di maggior impegno (si potrebbe dire, omnia munda mundis, allora ero un ragazzo).


Sono uscito dal tema? Forse, ma non troppo, perché cerco di capire la civiltà donde Stelluti trae le sue origini. So che anche Carnevali, prima d'andarsene, ebbe il tempo di conoscere Stelluti. Carnevali è il più raffinato disegnatore del suo tempo. Nessuno ha saputo, come lui, con una matita sottile e un foglio di carta, cogliere i valori d'un paesaggio, l'essenza segreta di un mondo visibile.


Stelluti l'ha guardato, ma è andato oltre perché non era quello il suo mondo, era solo un suggerimento per una strada da percorrere da solo. L'immaginario di Stelluti è chiuso e non è facile a penetrarsi. Vi sono, nei suoi fogli, visioni ricorrenti, quasi un leit-motiv che non sfugge, anzi finisce con rendere un mondo, che potrebbe apparire arcano, addirittura affascinante: la Chiesa del Convento di Sant'Emidio, la villa abbandonata, sussurri tra le rovine, rovine silenti in attesa dell'oblio, sono titoli delle sue incisioni. Romanticismo? No, siamo oltre, anche del Rovinismo, caro già ai vedutisti della fine del Settecento. Stelluti non s'adagia sull'acquisito, ma pone problemi, entra in noi con le sue inquietudini, intende intrecciare un colloquio con la nostra coscienza. Attenti, quando intitola una incisione: “Chiesa del Convento di Sant'Emidio”, non ci dice che in realtà siamo davanti ad un rudere, siamo noi che dobbiamo accettarlo, entrare nel suo stato d'animo e meditare su quella bella chiesa barocca, senza più la volta, a cielo aperto. Che cosa nei secoli è accaduto in quella chiesa? L'artista ci invita a meditare. Così in quelle ville abbandonate, in quel cancello ormai sepolto tra la vegetazione selvaggia, quasi come le città, nel Messico o in altri regioni dell'America centrale. La sua arte è invito alla meditazione, anche quando passa ad analizzare l'immensamente piccolo, che diventa un mondo da scoprire, come un intero universo, come il ramarro nel barattolo, i girasoli disseccati, la pianta malata, o, tristissime, quelle scarpe abbandonate, risalenti al 1981. Potremmo continuare, ma è sufficiente, tutto ciò, a farci comprendere il vasto mondo in cui l'artista si muove.


Colpisce, e lo fa, appunto, un grande incisore, la docilità con cui il segno in lui diventa incisione, rivelando un dominio assoluto e una sicurezza prodigiosa che lo sorreggono, frutto d'una lunga meditazione, della capacità - e qui sta la sua originalità, per non dire la sua grandezza - di passare dal pensiero all'azione, dalla visione interiore al mondo della comunicazione visiva.


Treviso, ottobre 2004

Pietro Zampetti
Roberto Stelluti. Dalla visione interiore alla comunicazione visiva

in Premio nazionale Gentile da Fabriano (a cura di), Roberto Stelluti. Studio su girasole disseccato, brochure della cartella,
2004

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