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Mi verrebbe voglia di rimandare direttamente gli amici lettori alla pagina che Roberto Stelluti ha scritto nel 1997, un testo che potrebbe bastare a comprendere i suoi disegni e le sue acqueforti. Ma so che a quelle riflessioni se ne possono aggiungere e se ne aggiungeranno tante altre che arricchiranno quelle immagini così dense di poesia. Epperò gli ruberò due spunti: "Ci sono giornate, tra maggio e giugno, incredibili: la natura raggiunge il suo più alto splendore, palpita di nuova vita, la vegetazione si fa più rigogliosa, si espande, fiorisce: è questa la mia stagione". Scrive dei luoghi dell'Appennino Umbro-Marchigiano "dove le montagne si impennano formando gole orride, inaccessibili; ancora non contaminate da presenza umana". Guardo i suoi fogli e mi sorprendo nel vedere come quel paesaggio fatto di carline, di soffioni, di spinagge, di sambuco si sublima, si trasforma in un reticolo elegantissimo di segni a evocare un'intensa malinconia, una sensibilità visionaria della natura che ritorna a riprendersi le tracce che gli uomini vi hanno lasciato, rovine sopraffatte dal fogliame, dalla fitta vegetazione, in una condizione emotiva vicina al sublime preromantico della fine del ‘700. Non c'è presenza umana nei suoi fogli, ma ad immaginarmi in quei luoghi proverei paura, angoscia, disagio e non mi so spiegare la vitalità della esplosione primaverile tutta luce e colore e il disagio che provo. O meglio mi rendo conto del processo visionario che si determina in quei fogli, dove ogni millimetro è disegnato, strutturato nella miriade di foglie, di rami, di steli, a voler saturare lo spazio a contrastare la paura del vuoto.
Considero il percorso intrapreso da Stelluti molto difficile. Arrivare all'immagine mediante l'analisi e non attraverso la sintesi è una strada in cui esiste, in modo considerevole, il rischio di perdersi e far perdere gli altri nel labirinto del sottobosco, esiste il rischio della narrazione descrittiva che vanifica la compattezza di un'immagine. Il suo valore penso stia proprio nell'aver vinto questa scommessa e ciò è dovuto non al mezzo, che pur possiede in modo eccezionale, ma al suo essere un poeta, al suo autentico e vero rapporto con quanto vive, alla sua capacità di estraniarsi dal quotidiano, alla sua grande sensibilità. Sono queste le ragioni per cui riesce a mantenere l'emozione nella lunga durata del suo lavoro certosino: lavoro-emozione è un binomio che il Novecento ha voluto ridiscutere, privilegiando spesso l'immediatezza, la gestualità, una scorciatoia aderente alla velocità che contraddistingue il nostro tempo, scorciatoia legittima che Stelluti ha evitato, fidando su un'idea dell'arte ben consolidata e al contempo difficile, dovendosi confrontare con i classici. Trovo ciò molto coraggioso, ma, nello stesso tempo da apprezzare visti i consolanti e commoventi risultati.


Scicli, 21 aprile 2003

Paolo Nifosì
Nel sottobosco tra incanto e paura

opuscolo della personale Roberto Stelluti. Disegni e incisioni alla Galleria «Trentasette» di Palermo,
2003

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