Quando nel 1984, oltre vent'anni fa, Italo Calvino si pose il problema delle figure, dei valori letterari, da conservare per il terzo millennio ormai all'orizzonte, iniziò il suo ciclo di conferenze all'Università di Harvard con il valore della "Leggerezza". E proprio definendo questo valore, nelle parole iniziali, introduttive, indicava che il suo compito artistico, di scrittore di fiction (il termine in inglese è del nostro grande scrittore) era stato quello di alleggerire il corpo compatto della scrittura, “la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso”, il che indica non solo il travaglio dello scrivere, ma il bisogno di rapportarsi ai contenuti della scrittura per ottenere un esito di valore intrinseco. E, mutate le forme e i modi, si direbbe questo il compito che si è dato Roberto Stelluti, procedendo nel suo sogno di natura, con la sua grafia coltivata da un lungo esercizio, termine essenziale di un talento innato, di cui il lettore non può che gioire. La leggerezza di Stelluti tende forse, come quella di Calvino, a voler reagire all'opacità del mondo, alla sua inerzia e sconfinata pesantezza; in pittura e più ancora nel disegno, il mezzo semplificato e complicatissimo scelto dall'artista marchigiano per questa sua presenza nelle sale della LVII Rassegna, confina e termina in un grigio indistinto, senza più parole, ricordi, tracce di vita, memorie di una realtà che l'arte cerca di rivitalizzare. Tentando così, unica grande metafora dell'espressione, di dare forma al caos, ordine all'informe di coscienza, emersione inevitabile in un tempo grigio.
Allora i soffioni, tema centrale di quest'incontro con la Natura, allora la maiuscola che ho messo volutamente al termine Natura, quasi a conformarmi alla logica romantica, che la pittura di Stelluti tende a negare, senza riuscirci più di tanto, allora il gioco dell'immagine assume un valore esemplare. Perché il soffione, e perché tanta insistenza? E tanto amore, quello che consente il viaggio, l'attraversamento mentale della realtà dello sguardo verso un concetto definibile non più a parole, ma solo con la grafia lieve, modulata in accordo e disarmonia, durezze e struggimenti, con la realtà presa in esame: ma non è stato proprio Picasso ad affermare che dalla realtà bisogna pur sempre partire? E nel secolo più spirituale della storia dell'arte, il secolo che abbiamo attraversato, questo riandar alla Natura è una scelta prima ancora che una qualità dell'agire artistico.
Domande più che risposte; come sempre accade alla pagina di qualità. Pagina che Stelluti riempie fuor di misura, con un andamento che non risponde più all'ordine e all'armonia, un ordine antinaturalistico dunque per parlare di Natura (e insisto sulla maiuscola); e la riempie, seguendo quel che scriveva Baudelaire cento e cinquanta anni or sono, ascoltando e facendo propri i ritmi dell'animo e i soprassalti della coscienza. Non più la natura, ma il cuore, non più la realtà esteriore, da cui si parte tuttavia, ma quella interiore, che ha a lungo rimuginato la prima, la ha ritrovata e capovolta, messa in soffitta o fossilizzata in un erbario medievale, per riproporla con i sensi travolti e allucinati di una realtà metropolitana dove la natura non è nient'altro che un fenomeno da baraccone da esibire nella cupola di ossigeno di un qualsiasi Central park. Così, da un luogo appartato, dove forse la Natura esiste ancora, sopravvissuta allo scempio del nostro progresso, Stelluti può prendersi il gusto di parlare ancora di Natura, e lo fa scegliendo un soffione, un fiore fragile come la parola, leggero come l'essenza espressiva da cui parte, la grafite, adagiata lievemente sul foglio, trascinata sulla carta con tocco lieve; e così facendo, aggiunge alla leggerezza la caducità, che sembra quasi nel, nostro immaginario collettivo, fare da regolare e inquietante pendant della prima, disvalore o sgomento, la caducità: e tuttavia così vicina a noi, quintessenza del nostro essere nel mondo, del nostro attraversamento di un secolo, che la storia ha voluto buio.
Ma l'armonia rotta a partire da quel 1907 in cui Picasso ci consegnò le sue “Demoiselles” non si può riacquistare; altro lo spazio, altro il tempo; altri i valori con cui rapportarci in un tempo inquieto, quello stesso che Vauxcelles, osservando l'incunabolo della contemporaneità per la prima volta, definisce giustamente come fuori dalla storia dell'arte, quale si era proposta fino a quel momento. Anche Stelluti sa bene che non si può essere armoniosi, come pur vorrebbe, innamorato come è di una Natura che coltiva, se non nei prati collinari che osserva dalla finestra dello studio di Fabriano, almeno dentro di sé.
E si muove con dolcezza il nostro pittore, come la madre che pettinava, in un collegio lontano che il futuro poeta dell'età di mezzo, tra Otto e Novecento, Giovanni Pascoli frequentava, in questi stessi colli, i capelli biondi del fanciullo morto, con mano lieve, "adagio, per non farti male"; con leggerezza appunto, il pittore opera per trascrivere il senso inquieto di una caducità con cui non possiamo che convivere: già, basta un soffio, un alito di vento, non ci deve essere nemmeno, come per Leopardi, suo Grande Conterraneo di quasi due secoli or sono, lo scossone del Vesuvio per tutto travolgere; tutto si è fatto gracile e leggero, tutto si è infranto sulle sponde trasparenti di un segno che inventa una fantasia di fiori, che fiori non sono; manca il colore, sanno di terra e di polvere, ma hanno il valore segreto della nostra vita; sono la nostra esistenza, esprimono la nostra gracilità, fragilità, precarietà: la leggerezza si declina con la caducità, e cerca di tradurre il nostro esistere, il nostro essere nel mondo.
Forse per tutto questo, Stelluti impagina i soffioni con un andamento irregolare, a volte fiori in un vaso, a volte mazzi depositati sul tavolo, misti ai fiori del girasole, che con il suo muoversi nel cielo sembra interpretare il nostro voler essere nel cosmo, a volte appena intravisti come esplosione felice di una libertà che sembra declinarsi con il bisogno di natura. I ritmi compositivi, le misure e le dismisure tutto si coniuga con quel che Baudelaire cercava, lasciando la poesia per immergersi in quella nuova e modernissima dei "piccoli poemi in prosa": i ritmi del cuore e i soprassalti della coscienza, per il poeta, non sono più le misure parnassiane del verso francese, così come, per il disegnatore, non sono più le forme e le figure, le composizioni di un'accademia ormai in soffitta.
Sono altra cosa; sono la leggerezza di un pensiero che insegue il profilo delle nuvole, cercando di darne lo sviluppo, la forma, il lento muoversi sulle ali dell'immaginazione. Stelluti ha la coscienza della misura: calcola segno dopo segno, traccia dopo traccia; calcola il peso dei grigi, l'intensità improvvisa del bianco della carta - non casualmente è un grande incisore; la calcografia gli ha insegnato il valore del bianco che si esalta sui contrasti del nero. Sa anche che tutte queste misure non entrano nel foglio del Bartolozzi; ma è sopraffatto, anche lui, dai bisogni della coscienza che sopravanzano, e danno nuova linfa, alle verità della natura.
La mano verga segno su segno, con calibrata misura questo frammento di realtà, che ha il senso di una nuova vitalità, esprime il desiderio di una nuova libertà, vuole mettere a nudo non tanto la realtà dell'occhio, quanto la verità del cuore; consapevole che il cuore è più capriccioso dell'occhio, sensi e mente esprimono verità contrapposte; consapevole anche che la misura dell'occhio trova una sua ragion d'essere solo se rapportata alle misure del cuore. Forse più contenute della verità di natura, meno rigorose di quelle della ragione, più evanescenti e fragili; ma proprio per questo, più rispondenti a ciò che attraversiamo, specchio reale di uno spegnersi lento e progressivo, di uno sparire, ventura delle venture.
Nella fragilità la storia ci ha insegnato un monito, che l'Ecclesiaste esprime con determinazione e certezze; nella fragilità, abbiamo trovato la leggerezza, che dà un senso pieno al nostro esistere in transito, una bellezza piena di contrasti, di miti, di contraddizioni; che vale la pena di apprezzare proprio per questo.
Mauro Corradini
Roberto Stelluti. Il lento muoversi delle nuvole: fragili sogni di natura
catalogo della LVII Rassegna Internazionale d’Arte «G. B. Salvi»,
Sassoferrato, (AN), 2007