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Dalla stazione di Fabriano, per raggiungere il centro della città, si percorre il viale Stelluti Scala.


Quello degli Stelluti è nome ricorrente nella storia della città marchigiana; l'apparentamento con la famiglia Scala, avvenuto nei primi dell'Ottocento, significò nomine di alti funzionari, ministri e senatori; forse a uno di loro è intitolata la via che, scavalcato il fiume Giano, introduce nella città vecchia: non a Francesco Stelluti, personaggio di rilievo vissuto nel Seicento, annoverato tra i fondatori dell'Accademia dei Lincei, corrispondente di Galileo, di Ulisse Aldrovandi, dell'imperatore Rodolfo II, poligrafo, poeta, versato in scienze naturali. Ho letto il volume che un gruppo di studiosi locali gli ha da poco dedicato; per le tante notizie che vi apprendo, chiedo a Roberto Stelluti se il linceo Francesco è in qualche modo suo antenato. Stelluti non nega né smentisce, risponde sorridendo: «Credo di sì. Forse. Può essere».


Mi piacerebbe sapere se una discendenza sia accertabile tra il dotto secentesco e l'ancora giovane artista nostro contemporaneo, non meno di lui attaccato a Fabriano. La vecchia, chiusa Fabriano, e più ancora le terre intorno, scorticate, silvestri, dirupate, sconvolte da spinte che le sprofondano o innalzano, offrendo ad anacoreti ed eremiti ricetti inaccessibili, rappresentano non lo sfondo ma l'alimento, la condizione dell'arte di Roberto Stelluti.


Stelluti è da includere nel novero dei moderni incisori marchigiani, nella Scuola, in particolare, di Urbino, come ormai è uso designare l'Istituto da decenni attivo nella città feltresca? Di essa fanno parte artisti illustri, Renato Bruscaglia, Leonardo Castellani, Walter Piacesi, insieme con altri maestri di un'arte aristocratica: Arnoldo Ciarrocchi l'ha frequentata a modo suo, anarchico e affettuoso, Luigi Bartolini non ne ha fatto parte, ma ne ha stimato dei rappresentanti. Stelluti seguì alcuni corsi, si disse e dice devoto di Francesco Carnevali, ma con gentile fermezza dichiara di non potersi considerare «urbinate». Tra i maestri che più influirono sulla sua formazione, tra i padri nobili, pone Luigi Bartolini, che per ragioni anagrafiche non poté conoscere di persona; ammette il suo debito verso di lui, non solo sul piano della tecnica, per l'importanza preminente riconosciuta al disegno, alla insostituibilità della linea espressiva rispetto a qualsiasi altro elemento, sia pure di alta, magari virtuosistica qualità.


C'è da dedurre dunque che l'arte di Stelluti non rientri nel capitolo dell'incisione marchigiana di fine secolo? Nessuno vorrebbe sostenere ciò, anche se l'artista di Fabriano sembra da sempre incline a far parte a sé, a vivere in uno spazio proprio. Se deve dare punti di riferimento, rimanda a luoghi, a tempi, a nomi remoti.


Stelluti, che si dichiara autodidatta, è uomo colto, di informazione larga e approfondita, attento a seguire i grandi movimenti culturali come i fenomeni legati a un richiamo magari solo stagionale. Nel suo vasto studio ricavato non so se dalla sacrestia o da una dipendenza della chiesa della Scala Santa, in una delle vie di Fabriano vecchia, tra muraglie di monasteri e baluardi a difesa di orti claustrali, egli allinea i cataloghi delle mostre in via di svolgimento, quelli delle chiuse da poco, accanto a monografie capitali, ad altre dedicate ad artisti che chiama, con fare candido e fermo, non i maestri, ma i padri nobili. Su ripiani particolari, album di dischi, astucci di CD, pile di cassette. Tutto Bach in esecuzioni storiche o appena avvenute, Haendel, Vivaldi, Gregoriano: conclusione con Richard Strauss.


La musica gli è indispensabile mentre lavora; per costringere, con le punte dei suoi aghi, nel vuoto di una lastra un microcosmo brulicante di segni e segnali decifrabili solo grazie a un codice che pazienza, concentrazione, amore della poesia, dell'arte visionaria, rendono accessibile. Questo non basta, può essere addirittura fuorviante, per ascrivere Stelluti al gruppo dei poeti-incisori di questo secolo o anche per riconoscergli caratteri esclusivi di «marchigianità». Egli è un artista dell'Italia di mezzo, non adriatica, ma appenninica, quella dei fabrianesi non entrati nella Storia, di artisti difficili, se non impervi, in gran parte perduti nel tempo, d'impronta fisica e metafisica: il Maestro di Campodonico, quello della Crocifissione (ora nella Galleria Nazionale delle Marche), il Maestro di Sant'Agostino, frescanti anonimi, vivi solo per qualche frammento dilavato, eroso, partecipi della vita aspra della Fabriano nascente, ma consapevoli che un diaframma invisibile li separa da una rivelazione ascosa in cui unica legge è quella della Carità e della Pietà.


Stelluti percorre i loro stessi luoghi, a volte fatti diversi a volte rimasti identici, valloni sforacchiati da ricetti di eremiti, cime che acque e venti hanno levigato, boschi cresciuti su se stessi grazie a cicli di morte, paludi dove una vegetazione putrescente anche dove appare rigogliosa protegge animali velenosi, reliquie di un mondo creato prima dell'apparizione dell'uomo. Le rare volte che Stelluti ha parlato di sé, non ha rammentato ascendenze figurative locali. Ha dichiarato il suo debito verso Luigi Bartolini, soprattutto per la libertà del conterraneo nel trattamento della lastra prima e dopo la morsura, per l'impiego spregiudicato dei materiali, per il culto del disegno, per la priorità, nella resa di qualsiasi motivo, riconosciuta alla poesia: le campagne anconetane, maceratesi di Bartolini non hanno, dal punto di vista iconografico e atmosferico, nulla o quasi in comune con le vedute di Stelluti; le sue nature morte - fiori, animali, oggetti - meno ancora.


Essenziale in Bartolini è la presenza della figura umana, schizzata o resa in ogni particolare, con una libertà, un abbandono pagani; mentre nelle visioni, nelle ossessive vanitas del più giovane, di umano non è traccia, se non crudelmente indiretta. Anche se ancora umano, appena disertato dall'uomo, appare ogni frammento di mondo rappresentato nella sua inaccessibilità, nell'abbandono, nella distruzione: dal Catria a Monte Cucco, da Pascelupo a Valleremita, nel lucore del ventre del ramarro morto o nella brunitura dei girasoli contorti, strinati dal sole.


Henri Focillon, uno degli studiosi più penetranti dell'arte incisoria, morì nel 1943, otto anni prima che Stelluti nascesse. Avesse conosciuto l'opera anche solo giovanile del nostro artista (sarebbe potuto accadere, perché Stelluti fu un precoce), l'avrebbe forse annoverata tra quelle da lui ascritte a un'Italia "magica, notturna, ricca di incantesimi", esistente accanto all'Italia classica; avrebbe annesso lo schivo artista della Marca a una categoria eterogenea, disordinata, anche chiassosa, per certi aspetti in anticipo sul Romanticismo. Rappresentante squisito di tale compagnia è Giovan Benedetto Castiglione autore di incisioni degne della tradizione nata con il Parmigianino, arricchita da Tiepolo, da Piranesi e da nordici geniali, che nell'incisione espressero il meglio di sé.


La tecnica raffinata del Grechetto interessa certo Stelluti, ossessionato di perfezionismo, al punto da richiamare un personaggio di Balzac, da far pensare a un possibile protagonista del giovane Thomas Mann; del vasto repertorio del Grechetto, in particolare deve interessarlo la parte relativa alla poesia delle rovine, all'azione distruttiva della natura sulle testimonianze della Storia, sulle illusioni della potenza e della forza, sulla vulnerabilità del Genio.


Non è questo un suo tema; il mondo di Stelluti può sembrare preadamitico, i suoi paesaggi, privi di cielo, appartengono più al regno minerale e vegetale che a quello animale. La Storia, in essi, non è abolita, esiste solo come forza priva di finalità, e per questo, sopra tutto, è terrificante, volta alla dissoluzione, alla putrescenza. Essa riduce in polvere, liquame, vapore ogni elemento. Erbe, fiori, rovi, efflorescenze, petali, calici, pistilli, steli, bacche, groppi di spine, germogli, radiche, lanugini, soffioni, boccioli, viticci, foglie secche ed espanse che coprono i pendii abbandonati dell' Appennino, marciscono nel sottobosco, in un lume inalterabile di catastrofe. Non è facile dire chi, ai nostri giorni, può avere dato rappresentazioni altrettanto irrecusabili della fine del mondo, avere letto con altrettanto distacco la sentenza ove, ab immemorabili, si decreta la scomparsa del Creato, si scoprono mistificazioni che vogliono la natura non solo amena, ma pietosa, soccorrevole.


Se a Piranesi, per negare all'uomo ogni fuga, per serrarlo nella rete dei suoi incubi, una possibilità se non di salvezza o di evasione, sembra possa venire dagli spazi vertiginosi delle sue prigioni mentali, da un errore di progettazione, dalla falla di una muraglia, dai cardini indeboliti di un cancello, non una fessura, uno spiraglio si scoprono nell'universo brulicante, sigillato in una solitudine cosmica, di cui Stelluti coglie simboli nelle grotte, nelle sassaie, nei calanchi tra Valdicastro e San Vicino, Pascelupo e gli sprofondi che fendono il Catria. Pascelupo con le sue selve, forre, pareti rocciose, con tracce di un eremo costruito perché sia impraticabile, è il luogo che Stelluti sente più suo. Il più vicino, egli ritiene, anche alla natura, alla sensibilità di Hercules Seghers, l'incisore olandese (1590 - post 1635) che egli ammira ponendolo accanto a Rembrandt.


I paesaggi rupestri incisi da Seghers restituiscono forme estinte, sottratte al flusso della vita, immerse nella luce "uguale e mortuaria" (Focillon) della Valle di Giosafat, una volta che al tuono delle trombe, al rombo del Giudizio è subentrato il silenzio. "La sola poesia dei suoi soggetti", afferma sempre Focillon a proposito dell'olandese, "è la poesia degli elementi". La considerazione vale anche, con le precauzioni, le distanze dovute, per Stelluti; se accanto ai suoi paesaggi geologici, a certe nature morte riflesse, sembra, da uno strumento posato su un pianeta (girasoli stroncati e strinati, mazzi di cardi, strumenti di lavoro abbandonati su un tavolo, un’atropo occhiuta, fulminata dalla morte tra le sue larve, non-esistenze perfette nella simulazione del Nulla) figurano immagini di vita apparente: ville in rovina circondate da parchi in disfacimento, opifici ridotti a scheletri, sezioni catacombali di fabbriche assalite da una vegetazione ingorda e mortifera, strade di periferia dove alberi scapitozzati sono sparsi su discariche, lungo fossi inquinati. Rovine, a differenza di quelle evocate da visionari del secolo dei Lumi, dai Romantici, che non evocano feste, gesta, eroi; piuttosto monumenti di una società che si distrugge via via che si forma, cancellando tradizioni che l'hanno resa possibile. Non una figura umana, neppure come staffage. Unica eccezione: nelle variazioni sul Nulla che Stelluti ha eseguito in un quarto di secolo, il bambino in bilico su un cumulo di vetture sfasciate, in procinto di franare, eretto soltanto grazie al suo istinto di acrobata. La luce che sale dal fondo, sbiancando la vegetazione selvatica, i detriti, i rifiuti impastati tra le zolle, straccia la coltre di nuvole distesa contro il cielo, la riga con lame abbaglianti, lascia intravedere vette e pendii. Ancora un istante, e il bambino precipiterà, travolto dai rottami che si è provato a scalare. Forse si salverà, le sue prodezze di equilibrista saranno premiate perché disperate. Un forse sembra scritto in filigrana su ogni foglio di Stelluti. L'avverbio dubitativo affiora dietro formulazioni definitive, nega la negazione nel momento in cui la enuncia. Forse.

P.S. Una volta che fui da Mino Maccari, nel suo studio di Forte dei Marmi, sul punto di andarmene mi sentii rivolgere nel modo perentorio, di comando, che Maccari sapeva imitare, una domanda: "E ora, signore, mi dia la definizione dettagliata di acquaforte; di seguito specifichi la differenza tra acquaforte e puntasecca". Mi limitai a raschiarmi la gola, senza pronunciare parola. Maccari continuò nella pantomima facendo i nomi di Petrucci (avrei dovuto seguire almeno uno dei suoi corsi per signorine), rammentando il catalogo del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, il Manuale di Renato Bruscaglia; altrimenti lui non avrebbe più... Non ricordo quale minaccia agitasse, sembrava parlare sul serio.


Le mie cognizioni sulla tecnica del bulino non sono aumentate rispetto a quell'incontro versiliese. Con un virtuoso quale Roberto Stelluti non azzardo considerazioni su aspetti artigianali del suo lavoro. Continuo a fissare particolari in precedenza sfuggiti, a cercare messaggi affidati a segni pulviscolari, a velature impalpabili, a figurazioni pervase da un horror vacui che dietro la loro staticità le rende freneticamente inquiete e inquietanti.

Giorgio Zampa
Roberto Stelluti. La cometa. Opera grafica 1971-97

Silvana Editoriale, 

Cinisello Balsamo (MI), 1997,
pp. 9-12

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