Nella mostra di acqueforti che la galleria Don Chisciotte (in via Angelo Brunetti 21, fino al 15 novembre) dedica a Roberto Stelluti, nella sua prima personale romana, ci sono due incisioni esemplari, per me, della tecnica e del mondo poetico dell'artista: la “Villa abbandonata” (1988) e “l'Armadio realista” (1978).
La “Villa abbandonata” è l'approdo arioso, minuzioso, calligrafico persino, in un mondo vegetale, un sottobosco d'alberi, foglie, un viluppo che sembra non raccontar nulla: certo c'è una stradina sommersa dal fogliame, c'è un cancello chiuso da tempo immemorabile ostruito da rami e sterpi, c'è l'aspetto decadente di un qualcosa di dimenticato e malinconico che, si fa motivo di perizia tecnica, d'incisione fatta di una linea ininterrotta che s'avviluppa e cresce come edera sul muro e diventa motivo astratto di perfezione formale, bellezza di segno, con poco chiaroscuro.
Invece nell'”Armadio realista” eseguita dieci anni prima, nel ‘78 (come pure negli oggetti nello studio del 1980) l'artista è tutto concentrato sulla drammaticità del soggetto, l'imponente massa chiaroscurale degli oggetti, anche tristi e macabri (teschi, animali e umani) che s'ammassano come incubi nel suo studio (insieme con tubetti, bottiglie, pennelli ecc.) dispiega insomma una esercitazione accademica di bravura e di morsure, in cui sembra che la lezione dei maestri sia troppo declamata (come anche in quelle periferie con rottami d'auto e lo “Stabilimento a Porto Sant' Elpidio” del '79 con derivazioni un po' alla Vespignani).
Stelluti (che è nato a Fabriano nel 1951, è autodidatta) vive in realtà una vita d'artista solitaria e molto produttiva, si vede che nella sua opera non c'è dispersione, e ricordo di una visita casuale nel suo vecchio studio di Fabriano, una cappella sconsacrata a cui si accedeva per un'impervia scaletta di legno, un ambiente buio, da apprendista stregone, con una miriade di oggetti sui tavoli (gli stessi rappresentati nelle acqueforti). Ma da allora Stelluti ha fatto progressi notevoli, il suo segno s'è fatto più leggero, quasi la lastra diventasse un diario dei suoi sogni, un eden dove fuggire e farci fuggire.
È raro, d'altra parte, che in queste immagini si presenti la figura umana (scrive Federico Zeri nell'introduzione all'interessante catalogo con tutte le opere riprodotte): «Sfasciacarrozze e barattoli vuoti, farfalle notturne e rose canine, girasol e gamberi, vivi o morti che siano, appaiono legati da un unico, incessante filo, che è quello dell'universale spiritualità che anima la materia, che ne costituisce anzi l'essenza vitale, non e immessa ma innata, e che solo noi uomini siamo in grado di percepire e comprendere».
Franco Simognini
Roberto Stelluti, l’astrattismo e la ricerca del bello formale
«Il Tempo»,
6 novembre 1989