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Nel minuscolo rettangolo di qualche centimetro quadro un composto mazzo di gigli fa da sfondo a un volume aperto. Aperto come lo sono gli in quarto pergamenacei sempre presenti nei dipinti di artisti di un tempo, che nel libro vedevano un simbolo indispensabile a figurare, tra clessidre, forbici, corone araldiche e teschi, per composizione di una Vanitas. Ma i gigli a cui mi riferisco, come posti a sostegno del libro aperto, seppure incisi, profumano intensamente e quell'aurea polverina impalpabile dei pistilli, a differenza della pulvis che precede il tremendo reverteris è, al contrario, seme di vita. E in questo caso, di vita vissuta tra le più elevate ricerche del sapere. Non soltanto botanico, non soltanto letterario.


Forse è tempo che io mi spieghi meglio. I gigli e l'aperto volume sono le sole presenze che compongono l'ex-libris di Federico Zeri, da lui fatto incidere da Roberto Stelluti, il giovane maestro di Fabriano che opera silenziosamente fra i suoi torchi, ignorando polemiche e strombazzamenti televisivi, tavole rotonde e relative gazzarre.


L'artista è nato in quella Marca che non finisce mai di offrirci affascinanti scoperte, sempreché la si percorra in stagioni non legate al turismo balneare, e soprattutto con una "andatura moderata". Quella stessa che Casanova ben conosceva quando in lungo e in largo percorreva tali contrade sedotto dall'ambigua bellezza di una giovane teatrante. Andar piano per godersi il fascino di paesaggi tenerissimi, sostando anche in sperduti e piccoli centri che tanto sovente si illuminano di imprevisti quanto imprevedibili "fondi oro".


Ma le sorprese non si limitano ai maestri che in passato hanno lasciato tracce indelebili del loro soggiorno in tutta l'estensione della Marca. Anche ai giorni nostri il prodotto di alcuni artisti marchigiani meraviglia la critica italiana e straniera, non fosse altro che per la differente prospettiva dei loro interessi e della direzione in cui operano. Roberto Stelluti in questa eletta provincia del centro Italia nasce, vive e lavora. E se per dire dell'arte sua d'incisore ho cominciato col descrivere un ex-libris da lui inciso per Federico Zeri una ragione c'è. Zeri ha, lui che non pone tregua negli spostamenti quando si tratta di indagare, di scoprire, ha capito il valore di questo incisore, già padrone come pochi in Europa d'ogni processo di tale antica disciplina. E così l'insigne studioso di Mentana, con quella esattezza a lui congeniale, tra i primi gli dedicò un commento, nel quale l'indagine sulla tematica dell'artista veniva considerata come testimonianza del degrado e dell'inevitabile metamorfosi prodotta dal disfacimento di edifici abbandonati. E dall'abbandono alla inarrestabile proliferazione di vegetazioni che, in tempi brevissimi, si insinuano tra le strutture, gli archi e i pilastri non più necessari all'uomo ormai assente, ma piuttosto testimonianze di attività scomparse. Strutture divorate e consunte da impenetrabili sottoboschi.


L'arte di Roberto Stelluti, a differenza di molti suoi contemporanei, non abbandona la strada maestra della pura incisione. Non si industria con sistemi di riproduzione ove l'iniqua esigenza del mercato pretende la presenza del colore. La strada percorsa dall'artista di Fabriano è quella tracciata dai maestri d'un tempo. Col solo graffio d'un ago sulla cera da incidere riuscivano a oscurare o illuminare l'immagine. E dal solo bianco e dal solo nero nascevano misteriosamente le infinite variazioni chiaroscurali che fanno vivere d'intense luci l'incisione su lastra di rame. Nessuna concessione ad esperimenti nuovi quanto discutibili si ritrova in tutta l'opera grafica di questo artista, che per essere tale sa benissimo quanto gli sia indispensabile non rinunciare alla pazienza. E che l'arte sia una combinazione tra poesia e pazienza lo sapevano in egual misura sia Dürer sia Goethe, e l'uno e l'altro insuperabili nei loro differenti magisteri.


Ma in tempi a noi più vicini lo sapeva bene pure Morandi, che nelle lastre delle sue acqueforti, segno dopo segno, ci lascia la più lampante testimonianza della pazienza legata a filo doppio con la poetica costante dell'equilibrio compositivo.


Il mio primo incontro con le opere grafiche di Stelluti avvenne l'anno passato. I fogli erano innanzi a me senza l'autore che li aveva eseguiti. Ne rimasi fortemente impressionato e chi mi passava le tavole incise dovette certamente accorgersi del mio stupore quando indugiai innanzi al meraviglioso intrigo di strutture lignee viste in una allucinante prospettiva senza confini. Se ho scritto "stupore" non mi sono espresso con esattezza, perchè con eguale intensità allo stupore si univa un senso panico come se la tavola incisa che avevo innanzi agli occhi fosse l'equivalente d'una pagina inedita di Borges, scoperta per caso e letta per la prima volta.


Stelluti dà un titolo a questa sua composizione: “Omaggio a G.B. Piranesi”, e così facendo il suo pensiero corre alle "Carceri d'Invenzione", dell'incisore veneziano, lui pure architetto prima ancora d'acidare le sue lastre a Roma. Ma sostando in ammirazione dell'acquaforte di Stelluti sempre più mi rendevo conto dell'angoscia, del delirio, dello spavento che da quel foglio si sprigionavano. Il malessere, il male oscuro del nostro presente, descritto puntigliosamente da un artista d'oggi, operante sì al riparo e ben lontano dagli inquinamenti d'ogni sorta che appestano le metropoli, e tuttavia nel silenzio d'uno studiolo, isolato come cella claustrale, Roberto Stelluti condivide le ansie che ognuno di noi si trascina appresso come una seconda ombra.


Gérard de Nerval parla di "Soleil noir de la Mélancolie” in un verso famoso del primo sonetto de LES CHIMÈRES. E non è forse questo oscuro astro del poeta suicida a produrre la seconda ombra a cui alludo qualche rigo più su?


Sfogliando l'opera grafica del giovane maestro, tavola per tavola, dalle prove più lontane del '69 sino alle recentissime dell'89, in tutte l'impeccabile tessitura dei segni pone in risalto una scelta d'immagini ove l'uomo, anche se la sua assenza a partire dagli anni settanta è scontata, rimane comunque l'invisibile protagonista. Vittima forse di una natura subdola, penetrante, divoratrice, in certi suoi fogli tanto simile a quella giungla della Cambogia che, oltrepassando i sacri recinti di Angkor-Vat, li stringe in un ferreo abbraccio soffocando lo splendore delle sorridenti deità Khmèr.


Tra le acqueforti di Roberto Stelluti, prediligo, quelle ove L’horror vacui le apparenta alle geometrie costruttive delle operose termiti. E più che mai è presente in queste il suo bisogno di documentare, di testimoniare con esattezza insuperabile un aspetto della realtà attuale. E se ciò che l'artista ci propone può stupirci per l'analitica ricerca del più minuto dettaglio, non è questo soltanto che sento di dover sottolineare. E che l'ansia o la malinconia che spesso ci accompagnano e con le quali ormai famigliarmente conviviamo, esse pure sono un intricato labirinto che Stelluti ha voluto incidere. Ma il suo segno è l'equilibrio che riscatta col miracolo della bellezza, il sole nero, dall'ombra del quale così spesso ci sentiamo oppressi.

Fabrizio Clerici
Le incisioni di Roberto Stelluti

catalogo della personale alla Galleria «L'Incontro», 

Ancona, 1989

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