Non v'è dubbio che in Italia, in particolare nella seconda metà del XX secolo, sia in vario modo affiorata e si sia piuttosto capillarmente diffusa una vera e propria condizione di incultura rispetto all'ambito della grafica, intesa questa quale sfera espressivo-immaginativa-comunicativa, fondata peraltro su una sua prestigiosa specifica tradizione moderna (di prima affermazione rinascimentale). Malgrado infatti Mantegna, Parmigianino, Grechetto, Tiepolo, Piranesi, se volete Fattori, fino, nel nostro tempo, a Morandi, Bartolini, Guerreschi, De Vita, Strazza. Generalmente estranea agli interessi di storici dell'arte, quasi sempre incompresa nella specificità evolutiva dei propri mezzi nell'esercizio di critici d'arte, infatti una cultura della grafica sopravvive ormai in Italia soltanto in eccellenze marginali, in oasi di felice creatività. Che tuttavia, nella loro aurea clandestinità (quasi), non sembra riescano a fare contesto, riescano insomma restituire - finora almeno - una da decenni dissolta consistenza di tessuto culturale specifico. Ignorata peraltro da tempo, la grafica, nel suo specifico, nella progettualità stessa di grandi istituzioni, dalla Biennale veneziana alla Quadriennale romana. Eppure altrove non è tuttora così, anzi! Ricordo l'impressione fortissima avuta, rispetto alla situazione nostrana, qualche decennio fa a Lubiana (cioè poco lontano da Trieste), quando mi capitò di essere, forse un paio di volte (assieme fra l'altro all'amico, rimpianto, Pierre Restany), nella giuria di quella Biennale internazionale specificamente appunto della grafica. Ed era l'impressione veramente di essere come in un altro mondo, che dunque si scopriva esistere ancora, un po' ovunque considerate le affluenze appunto internazionali, e proprio nei suoi specifici parametri di qualità mediale, di inventività, di sperimentazione (dove, fra l'altro, la lezione hayteriana era ormai da tempo innovativamente metabolizzata).
Che cosa intendere per quella che chiamo "cultura della grafica"? Esattamente la pratica creativa e il relativo apprezzamento critico, storico, formativo, collezionistico, museale, di un linguaggio specifico, che in quanto tale non ha a che fare con il disegno, né ha a che fare naturalmente con la pittura, come neppure, potrei aggiungere, con la fotografia e soprattutto con la fotoincisione. Un "mezzo" figurale che, se lo si pratichi correttamente (vale a dire dunque nella sua specificità mediale), tuttavia chiede sia una motivazione specifica, espressivo-comunicativa, del ricorrervi, sia una cultura operativa delle possibilità insurrogabili del mezzo medesimo. E quindi sollecita, in chi lo pratichi, la libertà di reinventarne la consistenza linguistica secondo una declinazione personale irriducibile a qualsiasi deduzione disegnativa, pittorica o fotografica; pena altrimenti una tarpante sostanziale inconsistenza e dipendenza mediale espressivo-comunicativa del proprio operare.
Ora non v'è dubbio che l'operare di Roberto Stelluti, che ammiro e seguo da alcuni anni, rientri totalmente e al maggior livello in questi paramentri di eccellenza di specificità culturale espressiva.
E vi rientri anzi sviluppando nella sua silenziosa tenacia più d'una sfida segreta, direi proprio attraverso i mezzi e nei modi del proprio operare. Volendone subito, intanto, situare l'orientamento operativo, e dato che è comunque un riferimento quasi patentemente all'origine del suo fare incisorio (penso al trattamento di certi suoi isolati soggetti di "nature morte", di familiarità di clima affettivo, dell'inizio degli anni Settanta), risulta evidente che Stelluti rovescia evocativamente e rapsodicamente il rapporto di scarto innovativo rispetto a una tradizione di rappresentatività narrativa come l'aveva baldanzosamente operato, il suo conterraneo Bartolini giovane. Mentre a una certa aulicità - quantomeno appunto rappresentativa - della tradizione incisoria, Bartolini a suo tempo è infatti venuto contrapponendo una personalissima corsività affettivamente quotidiana, avventurandosi in una dimensione temporale di sotteso riscontro esistenziale, Stelluti invece recupera una propria possibilità di dialogo con la tradizione (e naturalmente la sua, di incisore) al di là del tempo. Esattamente infatti sottraendosi al divenire di questo, arrestandolo in una immobilità quasi magica, che è oltre una dimensione trascorrente. Che ne vanifica l'irreversibilità, al traguardo estremo d'una inversione cristallizzante del fluire discorsivo del tempo vitale, instaurando dunque come iconicamente assoluto, invece, il limite d'una intravista incipiente fatiscenza del tutto. Scartando dunque da ogni possibile divenire evolutivo, cristallizza il tempo come in un suo ultimo traguardo. Ne ammortizza infatti le ulteriori possibilità in una fissità atemporale, in certa misura emblematicamente eterna, che assume il senso di ultima catastrofe, anziché di memoria di storia e dunque di vissuto possibilisticamente reiterabile. Quasi insomma in una riproposizione iconicamente imprevista di Vanitas, in un'avvertenza d'un ritorno catastrofico e putrescente in una natura terminalmente cristallizzata, fissamente finale.
Il suo orizzonte appare come ormai fuori del commercio quotidiano mondano di uomini e di cose, lontano infatti dagli uomini, immerso interamente, com'è, in un rapporto tra sé e l'infinito della natura. Un rapporto a scala panica, che si potrebbe quasi dire friedrichiana, non fosse tuttavia che per il fatto che Stelluti non si perde in un infinito cosmico, ma proprio al contrario nell'infinitezza panica del finito più particolare di assemblati elementi e brani di natura e di cose, di un accumularsi prossimo di componenti di natura vegetale o petrosa, o appunto di oggetti obsoleti. Le immagini che ci propone inducono infatti come in una immersione di smemoramento in una situazione di contatto ravvicinato naturale totalizzante, evocato e indagato in una perseverante capziosità analitica, non tanto per restituire l'oggetto che attrae quanto la trama segnica che lo configura. Interessa infatti Stelluti il segno capzioso, forte, figurante, e non la campitura. E il suo segno incisorio si fa così portante d'una intensità metamorfica della natura invasivamente totalizzante, che non a caso sovrasta e ingloba svariate rovine e relittualità. Un po' come quella carcassa d'automobile, di cui la foresta equatoriale s'era rigogliosamente riimpossessata, che - nei secondi anni Quaranta - sorprendeva e affascinava l'immaginazione di André Breton.
"Incontri ravvicinati", in particolare in occasioni di natura vegetale, sono quelli che Stelluti propone nelle sue incisioni strepitosamente avvincenti. È del resto quello il titolo di una sua lastra a "maniera molle" e acquaforte, del 1986. E immaginativamente e otticamente (inducendo il riguardante in un sorta di trappola visiva, sfidandone la perspicuità ottico-immaginativa) si confronta con un microcosmo lenticolarmente evocato e patentificato, promuovendo una sorta di provocazione conoscitiva attraverso il fascino del vicino, di una full immersion, iconico-segnica, e insieme del caduco al suo estremo. Mi dice: "Come se tutto stesse finendo", e soprattutto ciò risulta evidente nelle sue "nature morte", vegetali essiccate. A volte reitera i suoi "soggetti" preferiti, tuttavia allora mutando le modulazioni chiaroscurali dell'insieme, e dunque rinnovando le condizioni di quell'indotto corpo a corpo visivo.
Anche se ha inciso alcuni paesaggi marchigiani, Stelluti preferisce una dimensione di spazialità interna, appunto estremamente "ravvicinata". Riduce quasi la stessa natura a una prossimità come da spazio interno, da immediatezza di confronto oggettuale. Lavora lentamente, impiegando circa tre mesi su una lastra (e comunque uno su un singolo disegno). E sul proprio lavoro ha un controllo personale totale, giacché stampa da sé, nel suo grande e misterioso studio di Fabriano, circa il 90% delle proprie incisioni, in tirature oscillanti fra 70 e 120 esemplari. Ma naturalmente, in un procedere così analitico e capzioso, e dilatato nel tempo, frequenti sono sia le presenze di "stati" diversi d'una medesima incisione, che processualmente portano all'immagine finale di questa, altrettanto che frequenti sono le possibili varianti sia di carta, sia di inchiostro, stampate su Bibbia Oxford.
E per Stelluti, prestigioso maestro in particolare d'essenzialità segnica possibile e perentorietà probabile proprie dell'acquaforte (prevalente nettamente nelle sue circa 160 lastre, alcune di grandi dimensioni, realizzate in una quarantina d'anni di lavoro), la tradizione non è generica ma anzitutto specifica a questa pratica artistica: Altdorfer, Rembrandt, Seghers, Piranesi... Ha lavorato e lavora soprattutto appunto all'acquaforte, utilizzando marginalmente l'acquatinta, per fondi e campiture, fra anni Settanta e Ottanta, in particolare, ma anche la "maniera molle". Il suo impegno da incisore è iniziato alla fine degli anni Sessanta, quando a Roma guardava alla pittura e al disegno di Guttuso (ma anche alle sue prime forti incisioni, peraltro piuttosto sporadiche e che non sono entrate poi nel suo destino espressivo, mentre avrebbero potute gagliardamente certo avervi adeguato spazio, solo che Renato avesse avuta caratterialmente la pazienza operativa che una medialità sostanzialmente indiretta come quella incisoria certamente richiede). E quando vi frequentava la "Don Chisciotte" di Giuliano de Marsanich con le opere di J. P. Velly, "La Nuova Pesa" con Calabria e appunto Guttuso, "Il Gabbiano", dove convergevano Attardi, Guccione, ma anche Vespignani (più memorabile forse, alla distanza, come incisore che come pittore). E la sua scelta per l'incisione, allora, non fu occasionale ma assunta come destino.
Ma Stelluti tuttavia ha praticato e pratica anche il disegno e altrettanto in un suo specifico mediale comunicativo. Disegni realizzati in punta d'argento, o a matita, molto dura. Disegni dal "vero", ma anche da sue vecchie incisioni, come a ribadire l'emblematicità privata, atemporale, di un'immagine. Estremamente fragili, quasi evanescenti nei modi e le quantità della loro proposizione, risultano tematicamente, e proprio iconicamente, molto spesso del tutto affini alle sue incisioni. Il cui repertorio appare comunque miratamente piuttosto circoscritto: fiori, secchi, dunque già estremizzati, ravvicinati, racchiusi in spazi interni, oggetti pure ravvicinati, sistemati in armadi o affastellati su tavoli, oppure ammucchiate relittuali da sfasciacarrozze, ma anche paesaggi, più raramente d'ampio sguardo, e il più delle volte appunto molto ravvicinati, in una sorta di prensile e aggressivo quasi parossistico horror vacui del sottobosco. E tuttavia anche, in qualche caso (come nel 1980), invece paesaggi antropizzati, seppure ormai desueti, relittuali, di architetture industriali come antichizzate, ruinanti, che Stelluti (muovendo da fotografiche apprensioni d'immagine) meticolosamente rilegge, e immobilizza fuori del tempo, nel loro scheletro strutturale definendoli comunque ambientalmente in omaggio a Piranesi. Ancora, questo, un suo modo di divergere dal tempo in quanto misura di un proprio vissuto, verso un ultratempo di tradizione di sublimità quasi metafisica. Sono le sue "rovine" contemporanee: non estraneo infatti a riconoscervi emblematicamente quel livello ultimativo di fatiscenza del tutto, oltre la dimensione della contingenza temporale, oltre la storia, oltre una quotidianità di sguardo e di vissuto, verso forse una visionarietà analitica, stupefacente, rivelatoriamente anagogica, nel prestigio della spettacolarità di trame di puro segno espressivo in quanto autenticamente incisorio ma capaci d'assolutizzare visivamente evocative private presenze iconiche.
Enrico Crispolti
Le sfide segrete di Stelluti
catalogo della personale Roberto Stelluti. Disegni e incisioni 1971-2010, Museo della Carta e della Filigrana,
Fabriano, 2010