Parlare di Roberto Stelluti come di un artista figurativo sarebbe limitante e non offrirebbe la chiave per capire a fondo la sua opera e la sua vita, in così stretta relazione fra loro: le sue incisioni, realizzate quasi sempre all'acquaforte, tecnica da lui prediletta, pur rappresentando paesaggi, edifici in rovina, nature morte e carcasse di automobili, sono eminentemente autobiografiche e in quasi tutte erompe una tensione figurativa; l'interesse per la descrizione e l'esaltazione del particolare sono espedienti che portano a leggere l'opera al di là del dato oggettivo per poter cogliere le trasformazioni cui la materia è soggetta, per effetto del trascorrere del tempo.
I paesaggi che l'autore trascrive nelle sue incisioni sono quelli marchigiani, terra che a lui appartiene da sempre, più volte indagata e fonte di grande ispirazione. Nato a Fabriano nel 1951, dove tuttora vive ed opera, scoprì la sua attitudine all'arte fin dalla prima adolescenza grazie alla madre, che amava dipingere; il suo primo incontro con l’incisione avvenne sfogliando un volume di storia dell'arte dove erano riprodotte due delle quattro versioni delle “Tre Croci” di Rembrandt; egli stesso afferma che rimase colpito dal fascio di luce che invade dall'alto la scena della Crocifissione e dalla tecnica, in particolare dalla possibilità di ottenere più stati con la stessa matrice, cambiando la posizione delle figure con soluzioni grafiche diverse tra stato e stato.
Sempre più spinto dalla curiosità per l'incisione e dall'amore per l'arte, iniziarono, all'età di diciassette anni, i suoi viaggi a Roma, dove conobbe ed apprezzò l'arte di Lorenzo Vespignani, Carlo Levi, Ennio Calabria, Piero Guccione, Ugo Attardi e, soprattutto, l'opera di Renato Guttuso e Luigi Bartolini che Stelluti considera i suoi "padri nobili".
Delle opere di Guttuso, che conobbe personalmente, lo affascinavano il dinamismo, il segno carico e passionale e la violenza cromatica; di Bartolini ammirava la straordinaria capacità tecnica sia nell'incisione che nel disegno, dove l'espressività della linea descrive poeticamente la realtà.
Sempre a Roma, frequentò diverse gallerie, tra cui «Il Gabbiano» e «Don Chisciotte» di Giuliano De Marsanich, dove ebbe modo di conoscere, divenendone amico, Jean-Pierre Velly, pittore ed incisore francese le cui opere visionarie ed inquietanti influenzarono soprattutto le sue prime incisioni.
In questo periodo, fine anni Sessanta, ha iniziato a sperimentare, da autodidatta, le tecniche calcografiche che ha perfezionato, nel 1972, con un corso di incisione presso la Scuola del Libro di Urbino (l'unico in tutta la sua vita). Nell'acquaforte, tecnica che garantisce la massima precisione, ha trovato il mezzo ideale per trascrivere sulla lastra ogni minimo particolare. È proprio attraverso l'esaltazione del particolare, infatti, che Stelluti indaga la natura in ogni sua manifestazione per descriverne l’evolversi e il dissolversi in una continua metamorfosi; questo tema, che racchiude la poetica di tutta la sua opera, è già presente in “Meditazione sulla morte” (fig. 1) e “Studio per meditazione sulla morte (dalla Chiesa dei Morti di Urbania)”, due delle sue primissime incisioni ispirate dalla visita alla chiesa dei Morti di Urbania.
In “Meditazione sulla morte”, realizzata associando l'acquaforte all'acquatinta, il teschio umano, figura dominante, simbolo della fine della vita, è in stretto rapporto con le carcasse di piccoli esseri: lucertole, scarafaggi, cimici ed altre figure ormai irriconoscibili; le creature sono tutte egualmente destinate a sgretolarsi fino a dissolversi del tutto per divenire polvere ed andare a costituire il piano, appena accennato, su cui poggiano. E già presente l'intenzione dell'artista di descrivere nei minimi particolari le forme attraverso un segno grafico ancora incerto che si affinerà e diventerà sempre più analitico ed indagatore nelle sue future incisioni.
Gli anni Settanta hanno rappresentato per Stelluti un periodo di intenso studio e lavoro e lo hanno portato a realizzare diverse lastre utilizzando l'acquaforte, talora combinata all'acquatinta e alla puntasecca, confortato e incoraggiato da Federico Zeri, presenza fondamentale e stimolante nel suo percorso artistico. In questa prima fase è visibile l'influenza che Velly ha esercitato sull'artista: sono opere in cui emerge l'elemento visionario, legato ad un interesse particolare per la natura, per quella parte più nascosta, un'attrazione per il mondo sotterraneo e per la realtà dell'invisibile; è curioso che proprio in quegli anni abbia fatto un corso di speleologia nelle grotte di Frasassi.
Opere di quel periodo come “Viaggio in Palestina”, “Dentro l'abisso” e “Dentro l'abisso n. 2”, per citarne alcune, sono dettate da una certa irrazionalità, spinte dall'impulso di chi ancora è alla ricerca di un qualcosa di definitivo, ma la tecnica e il segno calcografico appaiono già perfezionati e delineano un tratto fortemente espressivo, indagatore, riflessivo e capillare, riconoscibile in tutta la sua opera. È presente la figura dell'uomo che poi scomparirà definitivamente, rimanendo solo come presenza implicita, fatta eccezione per le incisioni “Francesco sulle carcasse” del 1978, “Italiani brava gente” e “Motocross ad Esanatoglia”, entrambe del 1979. In “Dentro l'abisso n. 2” l'immagine, che richiama l'Inferno dantesco, si apre in un vortice roccioso dove in primo piano si dibattono corpi umani quasi scarnificati, consapevoli del loro destino e, man mano che lo sguardo procede dal basso verso l'alto, si confondono con la roccia, attraverso un processo di metamorfosi, fino alla completa fusione. Già in questa opera il segno si infittisce, non lascia alcuno spazio inviolato e la resa dei valori chiaroscurali si definisce nel rapporto ombra-luce: la penombra, per Stelluti sinonimo di mistero, fascino, melanconia, diviene il mezzo attraverso cui rappresentare le cose dette, non dette. Questi elementi caratterizzeranno tutta la sua produzione.
Dalla fine degli anni Settanta in poi, scompare totalmente l'elemento visionario a favore di una presa più realistica nei confronti della natura e del mondo circostante: le sue incisioni descrivono il trascorrere del tempo, attraverso il deteriorarsi della materia, in un continuo dialogo fra la vita e la morte dove non esiste una soluzione finale, ma la consapevolezza di un ciclico trapasso; opere come “Girasoli disseccati con ramarro”, “Periferia n. 2”, “Oggetti nello studio”, “Omaggio ad Altdorfer” sono esempi eclatanti di come Stelluti trascriva sulla lastra la sua visione dell'esistenza: il girasole disseccato, il ramarro morto accartocciato su se stesso, le carcasse di automobili ammucchiate, gli alberi scorticati in una vegetazione quasi priva di vita, tutte immagini che, descritte nei minimi particolari, con una miriade di piccoli segni, dimostrano l'impegno di cercare nel dato oggettivo una soluzione simbolica che la realtà dell'esperienza, assunta a testimonianza di vita, gli offre.
Accanto alle vanitas, ai paesaggi che appartengono più al mondo minerale e vegetale che a quello animale, troviamo incisioni dove «figurano immagini di vita apparente»*: scorci prospettici di chiese, di ville in decadenza quasi sepolte da una mortifera vegetazione, (“La chiesa del convento di Castel d'Emilio”, “Rovine silenti in attesa dell'oblio”, “Sussurri tra le rovine”), immagini di stabilimenti industriali, di opifici abbandonati in disfacimento, (“Stabilimento a porto S. Elpidio”, “Opificio abbandonato”, “Omaggio a G. B. Piranesi”) insomma ruderi come monumenti simbolo «di una società che si distrugge via via che si forma, cancellando tradizioni che l'hanno resa possibile»**.
Non esiste traccia dell'uomo, se ne avverte la presenza solo indirettamente. Nell'acquaforte “Sussurri tra le rovine” l'immagine inquietante rappresenta una parvenza di entrata, costituita da due monumentali colonne, sommerse da un'ingorda vegetazione che impedisce allo sguardo di scorgere oltre. Il segno che dà forma all'immagine tende ad infittirsi e a proliferare sempre più quando la presenza della vegetazione diventa incombente, esasperando la composizione e riempiendo ogni minimo spazio, ma sembra indebolirsi, diradarsi, quasi dissolversi nella descrizione delle colonne, che diventano ultimi testimoni di una presenza passata. Anche i risultati chiaroscurali si accordano con gli effetti opposti del tratto: le colonne sono caratterizzate da lievi colpi di luce quasi soffocata dalla inarrestabile vegetazione che è descritta attraverso una gamma inesauribile di piccoli segni pazientemente incrociati, tali da mostrare lievi sfumature che si rivelano nel rapporto di particolari valori tonali, privilegiando la penombra, il crepuscolo capace, per Stelluti, di trascendere il significato dell'immagine per dare vita ad un linguaggio intriso di simboli e metafore.
In “Omaggio a G.B. Piranesi”, la memoria di un grande incisore del passato riaffiora in questa inquietante acquaforte, dove tutto lo spazio è occupato da un'architettura smisurata e incombente, in cui le regole prospettiche sono spinte al limite fino al decentramento dei punti di fuga, in un continuo sovrapporsi, incrociarsi di rette orizzontali, verticali e oblique, fatta eccezione per l'unica linea curva di tutta la composizione: una corda posta centralmente e appesa ad una trave che solo una lettura attenta dell'opera permette di scorgere. La corda rappresenta un evento drammatico della vita dell'autore: il suicidio di un caro amico e, pertanto, simbolo di morte.
È lo scheletro di un edificio lasciato incompiuto; le travi lignee, una volta alberi, sono ormai avviate verso un'ulteriore trasformazione ad opera del trascorrere inesorabile del tempo, contro cui nemmeno l'uomo può nulla perché parte di questa realtà ciclica in cui tutto, progressivamente, è destinato a divenire qualcos'altro.
Roberto Stelluti, attento osservatore della natura, coglie in essa tutti gli aspetti, soprattutto quelli più oscuri ed inquietanti, non rifiuta la realtà ma va a fondo, scoprendo ogni angolo più nascosto; il suo è un incessante scavo all'interno della vita, come un incessante scavo all'interno della lastra. In questo modo partecipa pienamente a tutti gli eventi del reale, consapevole che la vita è soggetta a quel processo di metamorfosi.
Le sue opere rivelano un senso di melanconia; l'artista non si scontra con lo scorrere del tempo, ma ha compreso che dopo ogni fine c'è un nuovo inizio, anche se oscuro; egli è in grado, citando Ungaretti, di "sentire il tempo, l'effimero in relazione con l'eterno".
Note:
* G. Zampa in Roberto Stelluti. La Cometa, opera grafica 1971-97, [p. 11].
** Ivi
Emanuela Ivaldi
Roberto Stelluti, un incisore marchigiano
«Grafica d’Arte», n°51,
luglio-settembre 2002,
pp. 26-29