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Roberto Stelluti si è formato praticamente da solo, dimostrando fin da giovanissimo una passione per la pratica dell'incisione che gli ha consentito, attraverso la precoce e continua sperimentazione, di acquisire i segreti della tecnica e di padroneggiarla con maestria. Non solo un autodidatta, quindi, ma un "acquafortista nato", come lo ha ben definito Leonardo Sciascia ammirando alcuni suoi fogli dal vero. (L. Sciascia 1982, p.4).
La tradizione culturale della sua città natale influisce notevolmente sulla sua formazione artistica. È infatti Fabriano naturalmente gemellata, per via della carta, a Urbino, culla di quella Scuola del Libro che tanta parte ha avuto nella storia della calcografia del Novecento italiano. Non solo: Fabriano è la porta sull'Umbria, situata com'è in quella “linea delle gole” che ha fortemente determinato il paesaggio territoriale ed umano. Terra di solitari e segreti monasteri che testimoniano una naturale vocazione di quei luoghi alla riflessione ed alla spiritualità più incontaminata.


Se la sua prima produzione artistica (fine anni ‘60) è caratterizzata da una necessaria sperimentazione tecnica e le sue incisioni denunciano l'influenza di diverse indicazioni stilistiche, successivamente, negli anni ‘70, la ricerca espressiva di Stelluti assume una connotazione personale, evidenziando subito un duplice ed intimo rapporto tra tecnica e disegno, tra tecnica ed esecuzione, che da qui in poi condizionerà le scelte tematiche e stilistiche dell'artista.


“Dentro l'abisso” del 1974 è la prima opera che esprime questo profondo legame esistente tra la grande abilità grafica dell'autore e la pratica incisoria. La scelta del tema si rifà alla tradizione illustrativa ottocentesca italiana, che ha avuto nella Divina Commedia illustrata dal Doré il suo esempio più alto, ma già si avverte un distacco ed una reazione alla pura illustrazione per quel trattare la figura umana come materia, vita pulsante già in decomposizione, essenza in trasformazione.


La composizione meraviglia per l'infinita ricchezza di segni che formano una sorta di intricato labirinto, "decisi e precisi, ma più largamente sono innumerevoli serie di minutissimi punti, e i segni scanditi, ora dritti, ora curvi e anche rigirati e intricati, servono da guida ai punti e li conducono ad ottenere le più lievi variazioni chiaroscurali; e poiché le lastre sono di grande formato e quindi ampi gli spazi da campire, l'esecuzione dell'opera deve richiedere lunghi tempi e vigilata presenza” (F. Carnevali, 1982, p. 5).


La successiva produzione degli anni ‘70 è caratterizzata dalla definitiva scomparsa della figura umana. Divenuta materia, la sua rappresentazione è ormai insignificante rispetto alla ricerca, avviata dall'artista, di quell'essenza vitale ed innata che compenetra tutte le cose, siano esse vive o morte, e che "solo noi uomini siamo in grado di percepire e comprendere" (F. Zeri, 1988, p. 5).


“Girasoli disseccati con ramarro”, 1975-80, denuncia un rapporto sempre più complesso tra tempo di esecuzione della lastra e percezione del tempo nella rappresentazione. Tanto più la tecnica è mezzo congeniale per indagare il particolare, per raffigurare la realtà infinitesimale (quasi a voler recuperare l'incisione all'antica funzione di strumento per la ricerca obiettiva, scientifica e naturalistica), tanto più il disegno finale è inquietante per l'ambiguità del messaggio trasmesso. La poetica di Stelluti può sembrare il trionfo di un “realismo puntiglioso” e ci si accorge, invece, che la sua prepotente impronta verista evoca una realtà sognata, un'atmosfera magica, un mondo allucinato (V. Volpini, 1988, p. 6). L'attività espositiva di Stelluti è sempre stata notevole fin dai suoi esordi, anche se la sua opera ha avuto riconoscimenti in un ambito territoriale eminentemente regionale. Già con gli anni '80 si ha una maggiore presenza delle sue opere in esposizioni sia nazionali che internazionali. Tra tutte vale la pena ricordare la partecipazione, nel 1979, alla III Biennale dell'Incisione italiana di Cittadella; nel 1988 all'esposizione "Incisori contemporanei" di Klagenfurt e Graz (Austria); nel 1989 alla Galleria Don Chisciotte di Roma; nel 1990 alla IIa Biennale d'incisione "Alberto Martini" di Oderso; nel 1993 al "Premio Internazionale di Biella per l'incisione"; infine nel 1994 alla "VII Triennale dell'incisione" di Milano.


Le successive opere degli anni '80 sono il frutto dell'approfondimento di una ricerca linguistica ed espressiva che, anche nell'affrontare il confronto con gli antichi, denota padronanza tecnica ed autonomia creativa.


Sono omaggi dichiarati, o sottesi, non solo ai grandi, ma anche ad un fare artistico e ad un mestiere che non possono essere ritenuti minori o in subordine rispetto ad altre forme espressive. Nelle opere più recenti (“La quiete notturna” del 1985-86, “La villa abbandonata” del 1988, “I semi che volano” del 1992 e “Nel parco” del 1993), l'atmosfera rarefatta, la sospensione del tempo fermato per l'eternità, una maggiore attenzione agli effetti chiaroscurali, sono tutte qualità espressive che tendono a comunicare una sorta di inevitabile e malinconico distacco da un cosmo che, se pur svelato nei più reconditi anfratti, è comunque fondamentalmente ed inesorabilmente imponderabile. In uno scritto del 1991, così piace all'artista definire il proprio operare artistico: "Leonardo da Vinci diceva «Se sarai solo, sarai tutto tuo. Partire da questa concentrazione, da questo distacco dagli umani affanni dominando se stessi, è la condizione per riuscire a lavorare" (R. Stelluti, 1991, p. 40).

Anna Scalembra
Dalla traccia al segno. Incisori del Novecento delle Marche

in Silvia Cuppini (a cura di), catalogo della mostra, Comune di Ancona - Assessorato ai beni e alle attività culturali, Edizioni De Luca, 

Roma, 1994,
pp. 209-214.

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