Le architetture di Roberto Stelluti sono fornaci e opifici abbandonati che sembrano affondare tra i campi e le colline dell'entroterra marchigiano, stabilimenti ridotti a tristi scheletri che si accampano cupi e quasi rancorosi sul litorale della Marche meridionali come relitti di una industrializzazione interrotta per cedere al sogno di un lancio turistico mai compiutamente realizzato; e la suggestione di Piranesi, che la critica ha concordemente riconosciuto nel magistero di Stelluti, guida l'artista nella traduzione di cieche strutture dove con ritmo quasi ossessivo si sovrappongono scale, si incrociano pilastri, si protendono ballatoi, non a creare uno spazio ma a visualizzare una impossibilità di percorsi, una assurda e infinita complicazione di elementi. Il contesto naturale offre a queste architetture un commento che ne sottolinea la ormai raggiunta condizione di disumana presenza: il cielo nel margine superiore e i cigli erbosi in quello inferiore costituiscono una cornice ed un argine visivo, ma raramente dialogano con gli edifici che si distendono nella zona centrale del foglio, se non, in qualche esempio, per rafforzare una immagine di desolazione.
Così anche le architetture, in Stelluti, si nutrono della medesima linfa che percorre le sue visioni di erbe, fiori, rovi, soffioni, boccioli, spine: non natura, ma anch'esse relitti di una catastrofe inarrestabile. Visioni inestricabilmente connesse alla terra che ha visto crescere Roberto Stelluti, come uomo e come artista: una porzione di Appennino incastrata, tra gole e sassi e eremi, povera e separata dalle vie di più consueta frequentazione, che sa di un mare non lontano, povero anch'esso, ma con una dolce e malinconica seduzione di orizzonti tranquilli, sotto una luce pacata che si spegne nei tramonti dietro le colline.
Ma la casa di Tato è a Salve, una piccola città del Salento, in un Sud che nulla condivide con l'Appennino o il litorale marchigiano; la luce è forte e al tramonto distende sopra i luoghi un morbido velluto aranciato; e la casa che Tato ha sognato per Salve gioca con forme e colori, parole di una grammatica architettonica in equilibrio tra perfetta allucinazione visiva e rigore costruttivo: con inesauribile fantasia le forme si rincorrono una nell'altra, e pure sono guidate dall'architetto con mano salda per creare uno spazio progettato nei minimi particolari. La casa di Tato sorprende per scorci improvvisi, cambi di prospettive, pieni e vuoti, sporgenze e concavità; i balconcini in ferro e le cornici in tufo dialogano, in sottile ironia, con sequenze, quasi spartiti musicali, di piccoli riquadri e di superfici sapientemente modulate in aggetti diversi; e su ogni parete, su ogni profilo, su ogni volume, si impone, come un messaggio di perenne vitalità, il dialogo tra luce e colore, che sembra sconfiggere il decadimento del tempo.
Tato non dialoga con Piranesi, maestro di labirinti oscuri e irrazionali, ma con le Corbusier, restauratore di miti mediterranei dove l'architettura è misura, la matematica è contrappunto musicale, la fantasia è limpida successione di intervalli che non disdegna l'improvvisazione. Così la casa di Tato ha lanciato una sfida a Roberto Stelluti: lo ha costretto a confrontarsi con uno spazio, inventato sì, ma poi anche magicamente realizzato: con volumi architettonici visionari ma al contempo lucidamente delineati, con una luce del sud che batte su quei volumi rilevandone ombre compatte; con una dialettica di colori, elementare ma decisamente asseverativa.
E Stelluti ha vinto la sua sfida. L'ipogeo, inciso nel dicembre 2016, si affianca ora, in un dittico ideale, alla casa di Tato: cupa visione sotterranea la prima, che con facilità rispondeva alla fantasia nostalgica dell'artista, quasi canto aperto alla vita la seconda, come se lo scontro con le forme della contemporaneità, così dichiarate nell'architettura di Tato, avessero fatto nascere nuovi linguaggi.
Gli artisti, si sa, quando mutano orizzonte, e luce, e colori, e territori, sono capaci di trarre dai loro strumenti note e accordi mai sperimentati; sappiamo come Matisse riconoscesse nella liquida luce del Marocco la radice di un mutamento di linguaggio rispetto alla fredda opalescenza delle ardesie parigine. E così anche Stelluti ha declinato la sua operosa, sapiente, poesia delle infinite variazioni chiaroscurali con una nuova saldezza di forme e spazi: la casa di Tato domina il centro della composizione, in una felice prospettiva angolata che rivela il trascolorare della luce in una partitura complessa, svolta dai bianchi appena animati dai balconi, fino ad una gola di ombra e poi su e giù per le strette scale ed ancora su fino ai cieli luminosi che si addensano, scendendo, attorno alla piccola anfora; e tutta la casa sembra posare maestosa sull'obliquo muro di cinta che un fitto tratteggio costituisce a saldo contrafforto della luminosa apparizione; cosi che Stelluti, col solo bianco e col solo nero, vince la sfida più grande: tradurre, senza tradire la propria essenza di antico incisore, l'architettura colorata di un grande maestro contemporaneo.
E intanto gli occhi possono trascorrere sugli altri particolari della casa, tutti amorosamente concatenati, quasi a sottolineare il progetto di Tato, coeso in una addizione di unità solo apparentemente discordi; e seguire il dialogo tra le architetture e la vegetazione, perché Stelluti, questa volta, ha fuso la natura e l'architettura: non più cardi, spini, povere erbe, quasi resti geologici, ma alberi veri che abbracciano la casa, entrano nel portico; e come l'architetto ideava piante ed edifici in un unico armonioso organismo, così l'incisore piega il segno sensibile a ricreare una nuova, armoniosa, perfetta immagine.
Barbara Cinelli
Roberto Stelluti e la casa di Tato
in Luisa Laureati (a cura di), Il luogo delle utopie, brochure della cartella,
2018-2019